In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

giovedì 26 gennaio 2012

I miei occhi, il tuo sguardo -> Hong Kong (4)

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Quanto è lontana l’Italia vista da qui. Una piccola nazione di «gente che si sa divertire» e che – lasciatemelo dire – sa ben dibattere. Ma allo stesso tempo un Paese che troppo a lungo si è concentrato sui suoi passi, senza rendersi conto che il resto del mondo correva.

Ha perfettamente ragione il viceministro Michel Martone a dire che laurearsi a 28 anni (dopo 10 anni di studio) è da sfigati. Quello che Martone non ha considerato – e questo è grave visto il suo ruolo – sono i motivi che spingono gli studenti italiani a tardare così tanto. Insultare è semplice: ci è riuscito persino Brunetta quando sfruttò la parola “bamboccioni” per riferirsi ai cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training); ci riuscirebbe chiunque. Le difficoltà, invece, iniziano quando si prova ad analizzare il problema e capire cosa spinga i giovani a certi comportamenti.

Ho avuto l'opportunità di seguire corsi in alcune tra le più rinomate università al mondo e – devo ammettere – non ho mai incontrato tante difficoltà quante ne trovo a Pisa, in Italia. Il nostro modello universitario è differente, esattamente come sono differenti le prospettive per i giovani che si laureano. Le nostre università, che ritengo tra le migliori al mondo per la preparazione che danno ai loro allievi, da decenni non sono più competitive nel campo della ricerca e dell’applicazione dei saperi. Sono rimaste fabbriche di conoscenza che forse creeranno dotti (come qualcuno ha suggerito), ma – ahimé – non creano né opportunità né ricchezza. Le conseguenze diventano così evidenti: fuori corso e cervelli in fuga.

Ma l’Università non è il solo problema italiano. L’altro, quello fondamentale, è il problema delle liberalizzazioni, che in questi giorni stanno incontrando la solita opposizione conservatrice delle note lobby di tassisti, farmacisti, avvocati, notai e autotrasportatori. Mentre la Cina cerca una ricetta per spodestare gli USA e gli USA ne studiano una per non perdere la leadership, l’Italia rimane là, spersa nel Mediterraneo, alla mercé della Germania e confusa dalle solite bizze sui diritti di questo, di quello e di quell’altro.

Considerando tutto ciò, dovremmo smetterla di stupirci se, mentre dall’altra parte del mondo il Celeste Impero annuncia che nel 2012 le vendite al dettaglio aumenteranno del 10%, nel Bel Paese le famiglie si impoveriscono, con conseguente diminuzione delle vendite al dettaglio per uno 0,3%.

Ciò che è accaduto alla Concordia davanti alle coste dell’Isola del Giglio è una triste metafora di quello che sta avvenendo nel nostro Paese: una nave che cola a picco a pochi metri dalla costa, un comandante che scappa via prima dei passeggeri e un capitano che gli ordina di tornare a bordo senza essere ascoltato. Si tratta di chiari indizi dello stato confusionale in cui si trova la nostra nazione, smarrita in una completa mancanza di valori individuali e sociali.

Forse dovremmo ripartire proprio da qui, dal perdere un minuto per ripensare al nostro ruolo in questa società, preoccupandoci un po’ più del significato che vogliamo attribuire alle nostre azioni, alla nostra dignità, alla nostra esistenza.

Un solo attimo. Forse basterebbe anche quello.

***

Il tavolo è tondo ed anche sovraffollato. Al centro ci sono due pentoloni poggiati sopra delle piastre nei quali bolle del brodo. In quello più lontano da me il brodo è rosso, e spuntano delle verdure; in quello più vicino, invece, il brodo è bianco e al suo interno ci sono ossa di coccodrillo.

Esatto, di coccodrillo. Afferro il mestolo e le pesco: sono molto simili alle ossa di pesce spada. Anche il colore propriamente bianco ricorda vagamente quello delle spine di pesce, dei grandi pesci.

Siamo tutti affamati. Abbiamo dovuto attendere dei ritardatari per quasi un’ora e adesso vorremmo addentare qualcosa, ma i piatti non sono ancora arrivati. Ci guardiamo intorno: siamo circondati da vetrine con oggetti in pelle di coccodrillo e grandi acquari, nei quali nuotano pesci e crostacei, apparentemente ignari del loro destino.

L’Hot Pot all’incrocio tra Chatham road e Mody road è stato uno dei primi locali che ho visto quando sono arrivato a Hong Kong. Non appena messo piede in città, infatti, avevo poggiato la valigia nell’ostello di Chungking Mansion ed ero uscito. Dopo aver superato il solito muro di venditori ambulanti che offrivano ogni sorta di merce, avevo camminato per qualche centinaio di metri in cerca di un locale dove mangiare e, per caso, ero passato proprio vicino a questo hot pot, rimanendo colpito dalla proiezione di immagini di coccodrilli sullo schermo. «Here’s the dishes!», mi dice d’un tratto il cameriere, poggiando alcuni piatti con filetti di carne, funghi e verdure (tra cui pannocchie di mais e altri coloratissimi ortaggi). «This one is ostrich and this one is crocodile!», precisa, indicando i due differenti tipi di carne.

Ci avventiamo sulle magre porzioni con le nostre bacchette e le mettiamo a bollire nelle due pentole per poterle assaggiare. Dopo alcuni minuti, finalmente, possiamo agguantare il cibo. Non appena tiro fuori la carne di coccodrillo dalla pentola rimango deluso: appare coperta di bolle, il che mi fa sospettare che sia grassa. Tento comunque di assaggiarla e scopro di essermi sbagliato: la carne è magrissima e, nonostante sia poco tenera, ha un sapore squisito. A metà tra il pollo e il maiale.

***

Le torri del PolyU sono cilindri di otto piani che si alzano nel cortile del grande campus. Costruite in mattoni rossi, fungono da nodi di collegamento tra i parallelepipedi che – anch’essi alzandosi nel cortile – costituiscono i vari dipartimenti e le varie facoltà dell’Hong Kong Polytechnic University.

Se si accede al PolyU da Cheong Wan Road, si incontra una grande fontana dentro la quale si trova il logo di questo ateneo, che molto ha ereditato dallo stile dei campus britannici. Superata la fontana, si dovranno salire una trentina di scale per raggiungere quello che viene detto il Podium, ovvero una sorta di grande cortile quadrato, circondato dalle torri cilindriche e dalle strutture squadrate dei dipartimenti e delle facoltà. Dentro questo cortile sono presenti aiuole con piante rigorosamente nominate tramite cartellini in metalo e alcune sculture di recente fabbricazione. Negli angoli, poi, vi sono delle guardiole, utili a tenere d’occhio l’area ed evitare intrusioni esterne.

Ogni torre è contrassegnata da una lettera dell’alfabeto latino: entrandovi, si può accedere alla tromba delle scale o all’ascensore. Ad ogni piano è possibile raggiungere due porte che permettono l’accesso ai parallelepipedi di cui si è parlato. Sopra ogni porta sono riportate due lettere che rappresentano rispettivamente il nome della torre da cui si sta accedendo e la torre verso la quale si sta andando: così se si è nella torre G, per esempio, nelle due porte di ogni piano avremo GF e GH, in base alla direzione che desideriamo prendere, ovvero se desideriamo andare verso la torre F o verso la torre H. Passando dentro i corridoi che collegano le torri, si incontrano numerose aule e laboratori e – tra gli uni e gli altri – è possibile vedere una miriade di mobiletti che ogni anno vengono assegnati agli studenti.

Adesso che sapete che il cortile è quadrato e che è circondato da torri cilindriche e parallelepipedi, immaginatevi che di cortili ce ne sono diversi e che è possibile accedere dall’uno all’altro tramite passaggi nel vetre dei parallelepipedi o tramite le torri stesse. In questo modo vi sarete fatti un’idea abbastanza buona di come sia costruito il building dove si trova l’Hong Kong Polytechnic University.

***

È arrivata la Festa di Primavera e con lei l’anno del dragone. Grandi pulizie nelle case per prepararle ad accogliere la fortuna, cena in famiglia per la vigilia, sfilata nel primo giorno del nuovo anno (con tanto di danza del leone) e fuochi d’artificio nel secondo.

Così la Cina celebra il suo segno zodiacale preferito e già gran parte della popolazione si prepara a sfornare bambini. Considerate le pesanti tasse che il governo applica su chi ha più di un figlio, non è difficile incontrare chi ha aspettato fino ad oggi per poter diventare genitore, poiché il segno del drago è considerato il migliore, in quanto associato alla salute, all’armonia e sopratutto alla forza.

Stando alla mitologia cinese, la Festa di Primavera viene fatta risalire ad un’antica leggenda secondo la quale in Cina viveva un mostro chiamato Nian (年) che era solito uscire dalla tana una volta ogni dodici mesi per mangiare esseri umani. Per sfuggire alle sue fauci bisognava spaventarlo attraverso forti rumori e il colore rosso. Forse è proprio per questo che i cinesi sono ancora oggi soliti festeggiare il capodanno con canti, strepitii e fuochi d’artificio, il tutto immerso in una miriade di decorazioni rosse.

La danza del leone, che ho accennato sopra, sembra portare un’eco di questa leggenda: in essa, infatti, un animale dalla testa di leone e il corpo di serpente viene fatto sfilare per le strade e viene guidato attraverso tamburi e bandiere rosse, nonché attraverso un enorme Chupa Chups che gli viene sbandierato davanti quasi debba essere quello il suo prossimo pasto...

I festeggiamenti quest’anno sono iniziati la notte del 22 gennaio: la Festa di Primavera, infatti, si basa sul calendario lunare e ha inizio nel secondo novilunio dopo il solstizio di inverno, chiudendosi poi dopo due settimane con la festa delle lanterne, durante la quale vengono appunto portate in giro ed esposte sulle facciate delle case delle lanterne colorate per guidare gli spiriti beneauguranti nelle proprie abitazioni.

***

Per la cena della vigilia Sanny, la mia insegnante di cinese, mi invia un messaggio e mi invita da lei. Essendo coreana non può festeggiare insieme alla famiglia, per cui ha deciso di invitare qualche amico a casa per una cena tradizionale. Porto una bottiglia di vino francese e un pacco di Ferrero Rocher, qui molto apprezzati.

Il suo appartamento è al sedicesimo piano in un grattacielo di Hung Hom. Il suo soggiorno è arredato con un piccolo divano di fronte a uno schermo LCD sul quale si esibiscono senza interruzione cantanti, maghi e attori, in un varietà che poco si differenzia da quelli che sono soliti accompagnarci alla mezzanotte nei nostri capodanni. Anche i presentatori e i cantanti sembrano ricordare vagamente Pippo Baudo, Carlo Conti e Albano Carrisi. Se non fosse per gli occhi a mandorla, naturalmente. «All chinese are watching this tv-show now!», mi dice Sanny prendendo il cappotto. Io annuisco, poi mi reco verso la vetrata che da sulla strada, sposto la tenda e rimango immobile, sull’orlo di quell precipizio.

Dietro le voci enfatizzate dei presentatori, il rumore dei piatti in cucina, le battute di Sanny che sistema il cappotto da qualche parte. Davanti cinquanta metri di vuoto e poi l’asfalto. In un istante, come in un flash back, rivedo immagini di me bambino. Mia madre che stira davanti alla finestra soleggiata; io che salto sul letto dei miei genitori: salto, salto, salto e ascolto “Falco a metà” di Grignani; dovevo essere a scuola e non c’ero andato; avevo sfregato il termometro nel lenzuolo fino ai 38 gradi per evitare un’interrogazione; mentre sono in aria vedo i pini: lontani, dietro i tetti, e mi sembra di percepirne il profumo. Mi torna alla mente “La nebbia agli irti colli” cantata da Fiorello. E poi Giosué Carducci. E poi Pianto Antico. E la terra d’inverno. Le piogge. L’odore acre. L’erba. Le lumache nel cestino e gli stivali alti. La casa in campagna di una mia zia. Le bottiglie di Ichnusa incastrate nel tronco dell’ulivo contro cui lanciavamo i sassi. E le risa dei miei cugini. E le partite di pallone. E le scarpe rotte. E... «It’s ready!», una mano mi scuote la spalla.

«Oh, sorry!», dico voltandomi e raggiungendo il tavolo, che nel frattempo era stato imbandito. Mi presento alle altre amiche di Sanny e racconto della nostra prima lezione di cinese e delle parole che avevo imparato. Ridono. Una di loro si chiama Bianca. «It’s an italian name!», le dico. «Really? What does it mean?», mi risponde lei, facendomi ricordare tutta la questione dei doppi nomi che avevo scritto nella nota precedente. «White, it means white!», le rispondo. Sorride e riprende a parlare con le altre, senza dare troppo peso alla nuova scoperta.

***

Il vapore si alza dall’orinatoio. Scrollo. Accanto a me, un uomo con delle cuffie alle orecchie e un libro sotto il braccio mi controlla. Mi viene da sorridere. Alzo la braghetta e vado a lavarmi le mani. L’uomo mi si affianca e apre il rubinetto accanto al mio nonostante ce ne fossero molti altri liberi.

Esco dal bagno della biblioteca e punto verso il supermercato per andare a comprarmi qualcosa da mangiare. Dopo qualche passo noto che l’uomo mi sta dietro. Un caso? Provo a verificarlo. Mi fermo a leggere una locandina in un muro e con la coda dell’occhio mi guardo le spalle. L’uomo e lì e finge di guardare il vuoto. Mi domando se far finta di niente, se tornare verso la biblioteca o proseguire verso il supermercato. Devo prendere una decisione rapidamente. Lui intanto non si muove. Mi chiedo cosa possa volere da me.

Riprendo a camminare e mi controllo le spalle. L’uomo ha capito che mi sono accorto di lui e rimane immobile. Continua a guardare il vuoto con le mani in tasca e, di tanto in tanto, mi lancia occhiate. Costeggio un muro: noto che in fondo c’è la possibilità di voltare a sinistra. L’uomo, intanto, ha recuperato qualche passo e si è fermato vicino a un’aiuola. Ormai è palese che mi stia seguendo ed è altrettanto palese che io mi sia accorto di lui. Cosa diavolo vuole?

Giro e mi fermo con le spalle al muro. Conto lentamente fino a tre: uno, due, tre. Poi sbuco nuovamente da dove ero arrivato ed eccolo, l’uomo che mi seguiva aveva affrettato il passo: ce l’ho davanti, a meno di due metri, che mi guarda sorpreso. Non si aspettava che tornassi indietro. «Are you following me?!», gli domando con un tono secco e rabbioso. Lui inizia a ridere nervosamente: «No, no, no, no». Lo ripete numerose volte, allarga le braccia e ride ancora. «Where the fuck are you going then?», gli chiedo io a denti stretti. «There, to my office!», mi risponde indicando uno degli edifici del PolyU, che però so essere la sede delle mense. «Ok – gli dico senza perderlo di vista neanche un istante – so move! Right now!».

[To be continued...]

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