In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

domenica 25 aprile 2010

Odio gli indifferenti [...] sento di non dover sprecare le mie lacrime (Antonio Gramsci)

Discorso tenuto da Enrico Santus, direttore di Aeolo, il 25 aprile 2010 in occasione della celebrazione del 65mo anniversario dalla Liberazione a Pisa organizzata dal Popolo Viola.







Oggi è un giorno importante per l’Italia. Oggi è un giorno importante per tutti gli italiani.
Lo dovrebbe essere per lo meno, sia per la Sinistra che per la Destra. Lo dovrebbe essere sia per il Sud che per il Nord.
Esattamente 65 anni fa, uomini e donne di tutte le età imbracciarono per la prima volta nella loro vita un’arma e si dettero alla macchia. Non erano addestrati. Molti di loro non avevano mai visto un fucile. Nessuno di loro si aspettava di doverlo imbracciare per difendere la Patria.

Chiunque vorrebbe avere la garanzia di invecchiare. Invece, qualcosa spinse quegli italiani a combattere un nemico, quello nazista, che non risparmiava né civili né oppositori.
Uomini e donne, giovani e anziani, partivano sapendo che probabilmente non sarebbero tornati. Provenivano da realtà molto diverse gli uni dagli altri. Spesso, addirittura, supportavano idee politiche contrastanti, ma avevano a cuore una cosa: la libertà.
Era proprio la libertà che accomunava liberali e comunisti, cattolici e socialisti, anarchici e monarchici. La libertà di vivere dignitosamente e la libertà di esprimere il proprio pensiero senza alcun limite, senza alcuna paura. La libertà, insomma, di dire finalmente “NO” al fascismo e al nazismo.

Quasi dieci anni dopo, nel 1954, nel Teatro Lirico di Milano Piero Calamandrei ricordava il periodo della resistenza affermando: “Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini”.
Quel 25 APRILE 1945 si stavano ponendo le basi per la nostra Italia. Crollava una monarchia ed una dittatura e nascevano una repubblica ed una democrazia. Ed è proprio in quel giorno primaverile che si gettavano i presupposti per quella che – in soli due anni – divenne una delle migliori costituzioni al mondo, la Costituzione Italiana, capace di tutelare ancora i nostri diritti.
Ci hanno provato in tanti ad attaccarla. Tanti provano tuttora a comparare i repubblichini, complici dei nazisti, ai partigiani che hanno dato la vita per la libertà. Commemorare i morti, tutti i morti, è certo cosa buona: lo si faccia il 2 novembre. Il 25 APRILE si commemora la Liberazione e tutti coloro che hanno lottato per ottenerla.

Ma cosa spingeva uomini e donne tanto diversi in ideali, desideri e aspettative ad imbracciare un fucile? Cosa spingeva queste persone a rischiare la vita per una causa di cui probabilmente non avrebbero potuto godere i benefici? Non sarebbe stato molto più semplice adattarsi ad una realtà che, per quanto misera, garantiva la vita? NO!
Per citare ancora una volta Piero Calamandrei, “La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.” Ed ecco cosa provarono quelle persone: per noi è impossibile comprenderlo, perché tutti inspiriamo aria e la espiriamo regolarmente, ma provate a trattenere il respiro per sessanta secondi. Vi accorgerete che arriverà un momento in cui la vostra mente non penserà più alla vita o alla morte, non temerà il peggio. La vostra unica necessità diverrà RESISTERE, resistere per tornare a respirare. Resistere per tornare a respirare ARIA. Resistere per tornare a respirare LIBERTA’.
Imbracciare un fucile, allora, fu l’unica scelta possibile. La certezza del vivere senza respirare non aveva senso: meglio la morte. Ecco cosa mosse quelle braccia, quelle gambe e quelle menti: l’aria, la libertà. Tutti sapevano quanto fossero orrende le dinamiche della guerra. Loro, a differenza nostra, l’avevano vista coi propri occhi: erano vicini i bombardamenti ed era vicinissimo l’odore della polvere da sparo, nonché il fetido puzzo della morte. Ma erano giunti al punto di non ritorno, il punto in cui si deve scegliere a quale tra le due fazioni appartenere: UOMINI e NO.

Citando “La città futura” di Antonio Gramsci, “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. […] Il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che NON HA fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.”. (11 febbraio 1917 – Antonio Gramsci, La città futura)

Il 25 APRILE deve tornare nei cuori degli italiani, qualsiasi sia il loro ideale politico. Questo giorno è stato infatti uno spartiacque tra il fascismo e la libertà, e quest'ultima non ha colore. La dobbiamo a persone che non sarebbero mai volute diventare eroi, persone che avrebbero probabilmente preferito vivere la vostra vita. Avrebbero preferito evitare di dover scegliere tra l'essere UOMINI e NO. Glielo dobbiamo, festeggiamo questo giorno alla loro memoria, alla memoria di tutti quei partigiani che, prima ancora che cattolici, comunisti, liberali, anarchici, monarchici o socialisti, erano uomini e donne, padri, madri e figli, nipoti, fratelli e sorelle. Individui che mangiavano, lavoravano, ridevano, piangevano, ma – sopratutto – che sognavano.

A loro il mio saluto. A loro – e a tutti voi – questa boccata di libertà.

Enrico Santus


sabato 17 aprile 2010

Chi parla di mafia difende il paese

CHI PARLA DI MAFIA DIFENDE IL PAESE


È con profondo disappunto che leggiamo quanto afferma il Premier nella conferenza stampa a Palazzo Chigi del 16 aprile, nella quale sostiene che la mafia italiana, “pur essendo la sesta mafia al mondo è la più conosciuta” a causa del “supporto promozionale” fattole da film, serie tv e libri come le “otto serie della Piovra” o “Gomorra” di Roberto Saviano.

Non è necessario appellarsi allo scandalo per mostrare quanta cecità nascondano certe affermazioni. Il nostro Premier si dice fiducioso di sconfiggere entro la fine “della legislatura”, oltre al cancro, anche tutte le organizzazioni criminali.

Ma dal rapporto Sos impresa presentato il 27 gennaio 2010 dalla Confesercenti emerge un’altra realtà: la mafia italiana è ben lontana dal regredire, anzi, nel 2009 ha fatturato 135 miliardi di euro a fronte dei 90 miliardi fatturati nel 2007.

Secondo lo stesso Rapporto, lo scorso anno la “Mafia spa” ha rafforzato la propria posizione di prima azienda italiana, raggiungendo la soglia di quasi un reato al minuto a spese degli imprenditori. Si pensi che, solamente attraverso l’usura – cresciuta a causa della difficoltà di accesso al credito dovuta alla crisi – la mafia gestisce un giro d’affari di circa 20 miliardi di euro. Per non parlare del racket che rimane invariato solo a fronte di un drastico calo degli esercizi commerciali. Grande interesse riscuotono inoltre nelle organizzazioni mafiose l’edilizia e i centri commerciali, utili – questi ultimi – al riciclaggio del denaro sporco. C’è poi da tenere conto del settore del gioco, delle scommesse, delle frodi informatiche e, soprattutto, della contraffazione. Quest’ultimo in grado di muovere un giro d’affari pari a 7,8 miliardi di euro l’anno.

Se questa è la realtà dei fatti, ci viene difficile interpretare la tranquillità con cui il Premier asserisce certe parole, ma ancor più incomprensibile ci risulta la sua accusa di “supporto promozionale” alle mafie mossa a chi è costretto a vivere sotto scorta, senza la possibilità di sognare una vita normale, perché ha reso pubbliche le dinamiche delle organizzazioni criminali.

È ormai attestato che le mafie risentano della luce dei riflettori: esse desiderano il buio ed il silenzio, lo dimostra la cosiddetta pax mafiosa seguita alle stragi del ’92-93; godono del fatto che a conoscere le loro dinamiche d’azione siano solo pochi specialisti, consce degli ingenti danni economici che subiscono quando l’opinione pubblica è sollecitata su determinate tematiche.

In una società “dove la verità è sempre la versione dei potenti, dove viene declinata raramente e pronunciata come merce rara da barattare per qualche profitto; dove tagliare cadaveri e spargerne i pezzi è il miglior modo per rendere indelebile un messaggio, conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibilità che si ha, per considerarsi ancora uomini degni di respirare”.

Spetta, quindi, proprio all’informazione e alla partecipazione democratica avere un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie. Attraverso di essa, infatti, la popolazione è chiamata e tenere alta la guardia e a creare anticorpi alla malavita: il più delle volte, infatti, è dalla semplice denuncia di un cittadino informato e consapevole di non essere solo che nascono indagini che portano agli arresti di cui si sta vantando il governo.

Per questo motivo è importante appoggiare l’informazione e non attaccarla. È fondamentale evitare quel che accadde con Giovanni Falcone al Maurizio Costanzo Show nel 1991, quando un giovane di media statura si alzò dalla sua poltrona e accusò il magistrato palermitano di diffamare la Sicilia. Tutti sanno come finì la storia: l’accusatore divenne prima Presidente della Regione Sicilia e fu poi condannato a 7 anni di carcere in appello per favoreggiamento aggravato per aver agevolato la mafia; il magistrato fu ucciso in un attentato il 23 maggio 1992 nei pressi dello svincolo di Capaci insieme alla moglie e a tre agenti della scorta.


Enrico Santus, Nicolò Amore




(L'articolo è stato scritto a nome del gruppo che ha fatto partire il cosiddetto "Progetto Spartacus", un insieme eterogeneo di studenti e dottorandi della Scuola Normale Superiore di Pisa, della Scuola Superiore Sant' Anna e dell' Università di Pisa che si propone di indagare e studiare il fenomeno della criminalità organizzata, unitosi in occasione del seminario di Roberto Saviano alla Scuola Normale Superiore)



domenica 11 aprile 2010

Antonio Pascale, dall'intervento su AEOLO a "Questo è il paese che non amo"

Cari Lettori,
vi scrivo per informarvi che è uscito l'ultimo libro di Antonio Pascale, "Questo è il paese che non amo".

Antonio, uno dei più amati scrittori italiani, fa i conti una volta per tutte con il nostro paese. E scrive un saggio sull’Italia contemporanea a metà tra l’autobiografia sentimentale e l’inchiesta sul campo.

Nel IV numero di Aeolo, Little Italy, Pascale era intervenuto con: "Contro la nostalgia per un'idea di futuro", un'intervista da me diretta nella quale lo scrittore analizzava i problemi contemporanei con occhio rigorosamente progressista e positivista, sostenendo il ruolo dell'onestà intellettuale nel miglioramento delle condizioni sociali. Cosa che nel nostro paese stava venendo a mancare.

<<>> sostiene Pascale. Poi risponde alla domanda se per immaginare un'Italia diversa sarebbe necessaria l'assunzione di responsabilità da parte dei cittadini con queste parole:

"L'impressione è che manchiamo di una metodologia critica, grazie alla quale affrontare in maniera analitica e profonda i nostri errori, quelli naturali e quelli specifici. E' un po' come lo schema narrativo classico, i tre atti. Nel primo atto il protagonista dichiara il suo obiettivo, nel secondo fallisce, arretra e analizza i suoi sbagli, quindi nel terzo atto risolve il conflitto. Se chiedete a uno scrittore, a un critico quale atto sia il più difficile, in coro risponderanno il secondo. Il primo è solo una dichiarazione di intenti, voglio salvare il pianeta dal riscaldamento globale, voglio amarti tutta la vita, voglio un milione di posti di lavoro ecc, il terzo è a tutti gli effetti un atto in discesa, una volta risolto il conflitto, l'accordo si trova. Il secondo atto presuppone senso dell'analisi e passione conoscitiva; e un personaggio capace di dichiarare i suoi sbagli e trovare una nuova strada. L'impressione è che, appunto, senza una metodologia condivisa, pubblica, soggetta a integrazioni e verifiche sperimentali, viene a mancare il secondo atto e dunque dobbiamo accontentarci di dichiarazioni di intenti tipiche del primo atto, e cioè ottimismo a oltranza, e risoluzioni dei conflitti a tarallucci e vino."


Antonio Pascale
Questo è il paese che non amo
Minimum fax
Pag 185, euro 12.

Maggiori info su: http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/04/08/news/paese_amo-3196727/

Cari saluti,
Enrico Santus

venerdì 2 aprile 2010

Alda Merini, un sito per continuare a lottare: www.aldamerini.it




tri-merini (Gianfranco Bagatti - 1996)




Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio.
Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno…, per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara”.



Questa è Alda Merini, già donna a dodici anni, quando aiutò sua madre a partorire il fratellino durante i bombardamenti inglesi. Erano scappati su un carro bestiame nelle risaie di Vercelli, e lì hanno atteso in silenzio che i bombardieri se ne andassero.

Questa è Alda Merini, donna che pur avendo conosciuto l'inferno si definisce cattolica, ma ammette: "Non lo so se credo in Dio, credo in qualcosa che… credo in un Dio crudele che mi ha creato, non è essere cattolici questo?".

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.


Venne quindi la povertà, che la faceva vivere con la famiglia in un locale abbandonato. Alda conobbe Ettore Carniti, un lavoratore ("il primo che mi è capitato"), poi lo sposò nel 1953 e con lui convisse tra un internamento e l'altro fino al 1983, quando Carniti morì.

Lei lo amava profondamente. Lui profondamente era geloso, poco incline ad apprezzare gli interessi culturali della poetessa, già scrittrice dall'età di 15 anni. La fame non la preoccupava: lei perseguiva i suoi sogni.

Se la mia poesia mi abbandonasse
come polvere o vento,
se io non potessi più cantare,
come polvere o vento,
io cadrei a terra sconfitta
trafitta forse come la farfalla
e in cerca della polvere d’oro
morirei sopra una lampadina accesa,
se la mia poesia non fosse come una gruccia
che tiene su uno scheletro tremante,
cadrei a terra come un cadavere
che l’amore ha sconfitto.


E poi il manicomio, le violenze, la crudeltà di preti e infermieri che stupravano le donne e poi le definivano "matte". La vergogna e la forza di lottare. Dall'anonimato dei Navigli di Milano all'essere definita "musa dei Navigli", dal manicomio alle candidature al Nobel per la Letteratura, Alda Merini ha lottato tutta la vita: un marito che beveva e la picchiava, quattro figlie che ha partorito e che non ha potuto allevare, alle quali raccomandava sempre "di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza.".

Quattro figlie che, pur ammettendo che la vita della loro madre ha influenzato "positivamente ma anche negativamente" le loro scelte, ora desiderano ricordarla attraverso un portale totalmente dedicata a lei: http://www.aldamerini.it.

Al suo interno è possibile leggere la biografia e le lettere di una personalità affascinante, che aveva trasformato i muri della sua casa in un'agenda telefonica, tappezzata da numeri, versi, articoli, foto e quant'altro. Una personalità alla quale il cantautore Giovanni Nuti dedica nel 1994 tutto il suo percorso artistico.

Alda Merini si spegne il 1 novembre del 2009 a causa di un tumore osseo al San Paolo di Milano: i funerali di stato sono stati celebrati nel pomeriggio del 4 novembre nel Duomo. Rimangono i suoi versi, morbidi nel linguaggio ma durissimi e taglienti nel significato, perché la lotta della Merini non scompare con la sua persona.


di Enrico Santus
(direttore di AEOLO)

giovedì 1 aprile 2010

Criminalità internazionale - Roberto Saviano alla SNS



Criminalità internazionale - Roberto Saviano alla SNS



15/22 marzo, ore 10:30. Quando si spalanca la porta ed entra nella stanza un ragazzo in giacca scura, quasi schiacciato da quattro guardie corpulente, non parte nessun applauso. Per un attimo quaranta studenti, dottorandi e perfezionandi rimangono muti, immobilizzati dall’entusiasmo che emana quella piccola figura che si dirige rapida verso la sedia dal quale interverrà per il seminario di “Criminalità internazionale”. Tutto si frantuma come un cristallo quando il clap clap di un funzionario spezza il silenzio: subito l’applauso si propaga per la Sala Azzurra, una delle più prestigiose aule della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Roberto Saviano appare in scena così, con passo sicuro e disinvolto. È evidentemente cosciente delle proprie capacità di oratore, ma ancor più lo è dei contenuti del suo discorso, lui che – primo caso nella storia – a soli 31 anni ha già partecipato a due “Venerdì del Direttore” presso la Scuola Normale. Nella sua scorta si avverte invece un certo nervosismo: le facce sono tese, controllano ogni movimento dei partecipanti e si lanciano occhiate e indicazioni. Deve passare più di un’ora perché i volti dei militari si rilassino: solo allora sorrido accorgendomi che gli sguardi non si soffermano più su movimenti sospetti, ma vengono distratti dal passaggio di una bella ragazza.

Roberto Saviano prende la parola e racconta di come la criminalità organizzata sia sempre meno criminale e sempre più organizzata. Il petrolio bianco – dice, riferendosi evidentemente alla cocaina – sta cambiando gli equilibri economici di molti Paesi nel mondo, e fa un cenno al Messico, diventato una “narcodemocrazia” che sta vivendo una cosiddetta “turbocrescita” proprio grazie al traffico della coca. “Buona parte della stessa geopolitica potrebbe essere riconsiderata in base al narcotraffico” commenta. E parla di Obama, che ha stanziato più soldi per le indagini sul narcotraffico che non su quelle inerenti al terrorismo, proprio perché – evidentemente – ritiene questo problema decisamente più serio e concreto.

Ed è a questo punto che il discorso di Saviano ci fa percorrere migliaia di chilometri per tornare in Italia: “Salvatore Mancuso,” sorride amaramente lo scrittore “trafficante colombiano di origine italiana, dice sempre che 'la pianta della coca è molto strana: perché ha le foglie in Sudamerica, ma le radici in Italia'". “Ne è una prova” prosegue “ il fatto che tutte le mafie internazionali considerano quelle italiane come gli interlocutori principali”.

Unica possibilità di sconfiggere il traffico internazionale del petrolio bianco sembrerebbe, a questo punto, la depenalizzazione: la stessa redazione dell'Economist sostiene da vent'anni che la vendita controllata delle sostanze stupefacenti potrebbe portare numerosi vantaggi, specie dopo che è stato dimostrato il totale fallimento del proibizionismo.

“Ma allora cosa si può fare contro la mafia?” chiedono sconcertati i volti dei ragazzi che ascoltano lo scrittore. Saviano sembra cogliere la domanda: “Bisognerebbe accendere più luci sul fenomeno mafioso, specie su quello che è sempre rimasto più all’ombra: i siciliani erano abituati già da tempo ad avere a che fare con i media, ma la Camorra no ed ha risentito molto dell’attenzione posta nella Campania ultimamente”. “Se i giornali nazionali spostassero la redazione nel napoletano” garantisce Saviano “si avrebbero giornali totalmente diversi da quelli che leggiamo tutti i giorni. Si avrebbe maggiore informazione su fatti gravissimi che, oggi, sono relegati a qualche piccolo giornale provinciale, scritti da cronisti coraggiosi ma, purtroppo, spesso non troppo abili all’analisi del fenomeno”.

La Camorra, infatti, è molto attenta all’informazione: attraverso una rapida rassegna dei titoli dei principali giornali campani, Saviano fa osservare quanto sia evidente l’influenza dei boss. È sufficiente ascoltare la chiamata di Michele Zagaria e Antonio Iovine al giornalista Carlo Pascarella, allora al Corriere di Caserta, per capire quale aria giri nelle redazioni dei giornali. I due boss latitanti, uno dopo l’altro, si lamentano in maniera vagamente minacciosa con l’incredulo Pascarella, sostenendo che non sia “un giornalista serio” in quanto scrive di guerre non vere tra le loro famiglie.

Dopo ogni omicidio di Camorra, la tendenza è quella di diffamare la vittima per far sì che la sua morte venga accettata senza problemi dalla comunità. Si utilizzano tutte le strategie: l’accusa di pedofilia, di traffico d’armi o addirittura di appartenere alla stessa Camorra. Così accadde persino con don Peppe Diana, eliminato nel 1994 dal clan dei Casalesi, sotto l’impero di Francesco Schiavone (detto Sandokan), accusato di esser stato a letto con due donne solo perché era uscita su un giornale una sua foto mentre abbracciava due scout.

Ma questi giornali non sono solamente i portavoce della Camorra, creano anche un immaginario di successo: si pensi a Nunzio De Falco che, per esempio, condannato come mandante dell’assassinio di don Peppe Diana, nei titoli del Corriere di Caserta è definito “re degli sciupafemmine”, quasi una nuova icona pop.

A questo punto si salta a scherzare sull’antropologia mafiosa: il giovane scrittore ride a ripensare all’intercettazione di Roberto Settineri, ambasciatore dei clan a Miami, che parla con un interlocutore a Palermo e gli canta – con la melodia de Il Padrino – “Parla ben piano che nessuno sentirà!”. I film di mafia più che portare le usanze mafiose nel cinema, hanno creato dei modelli che stanno avendo un incredibile successo nella realtà. Lo stesso termine “padrino” non veniva utilizzato dai clan di mafia prima dell’avvento dell’omonimo film.

La cultura pop penetra nell’immaginario mafioso e lo arricchisce di particolarità curiose: “I più giovani mafiosi vestono” dice Saviano sgranando gli occhi e gesticolando con la mano “come i tronisti di Maria de Filippi!”. La platea ride.

Sebbene la giurisprudenza italiana sia la più avanzata nel trattare i fenomeni mafiosi (si pensi solamente che né in Gran Bretagna, né in Francia, né in Germania né in Spagna esiste il reato di associazione mafiosa), nel nostro Paese non si fa ancora abbastanza per lottare contro quest’organizzazione criminale, che sta tendendo sempre più a legalizzarsi e infiltrarsi nelle strutture istituzionali, dove può radicare indisturbata e riportare nella legalità i frutti di attività illecite (si pensi al riciclaggio di denaro sporco svolto – secondo le indagini – da Scaglia, il fondatore di Fastweb).

La Camorra, al di là delle guerre di potere, si comporta come una vera e propria impresa moderna: il suo scopo è vendere la maggior quantità di prodotto e tagliare i costi di produzione. La cura che essa riserva all’immagine è poi emblematica della sua evoluzione all’interno di un sistema economico in cui i confini della legalità si fanno sempre più labili. Promossa come l’impresa più potente d’Italia, con un fatturato annuo pari a 40.000 milioni di euro, la crescita della Camorra deve essere fermata prima che sia troppo tardi.


di Enrico Santus