In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

venerdì 3 febbraio 2012

I miei occhi, il tuo sguardo -> Hong Kong (5) - FINE PRIMA PARTE

[Previous part at http://www.facebook.com/notes/enrico-santus-aversano/i-miei-occhi-il-tuo-sguardo-hong-kong-4/10150522933842947]

«You’ve always a happy face!». Così mi accoglie Bidà, il guardiano notturno del palazzo, quando sul farsi del mattino torno barcollante per le troppe bevute. «Yours is a very beautiful life!», commenta, anche quelle volte in cui sto semplicemente tornando da una nottata di studio in biblioteca. Io sto al gioco: «Beautiful? I dare to say that mine is a magic life!». Poi chiamo l’ascensore e lo saluto con un inchino. Lui ride e mi risponde: «I’ll se you tomorrow, good man!».

Bidà ha quasi settantanni e porta degli occhiali a goccia. «I was a policeman, you know?», mi ha raccontato una notte. «Really?». «Yes, look...». Ha tirato fuori dalla tasca del cappotto un borsellino con inciso il simbolo della polizia di Hong Kong e mi ha guardato inarcando le sopracciglia: «Can you believe it? I was an inspector for two years for the English department of police». «Wow! But why only for two years?», gli chiedo incuriosito. Lui esita un istante, guarda il borsellino e poi comincia a raccontarmi che nel 1973 la polizia di Hong Kong aveva una bruttissima fama. «As an inspector – mi dice con gli occhi lucidi – I was supposed to collect money from pushers and prostitutes and bring them to the police station…». Erano gli anni in cui si diffondeva l’eroina e ogni giorno vi erano nuovi morti per overdose. Suo padre non poteva accettare che il proprio figlio fosse complice di un sistema tanto corrotto. Un giorno, risoluto, andò nel dipartimento di polizia e lo afferrò per il colletto davanti a tutti i colleghi, dicendogli: «Questo posto sia maledetto: tu qui dentro non ci metti più piede!». E quella fu veramente l’ultima volta che Bidà indossò la divisa.

***

Di sporco ad Hong Kong ce n’è parecchio. Qualche giorno fa, parlando con un amico che vive in questa città da oltre dieci anni, ho scoperto che Tsim Sha Tsui è divisa in zone appartenenti a diverse famiglie. Recentemente – mi ha raccontato François – ci sono stati anche diversi omicidi importanti, tra cui una decapitazione in pieno stile triade.

Appena tornato a casa, non è stato difficile trovare conferma a quanto mi era stato raccontato: su internet sono numerosi gli articoli che spiegano come Hong Kong sia la base di numerose organizzazioni criminali cinesi che operano poi anche all’estero, attraverso le chinatown (dove – udite udite – non si parla mandarino, bensì cantonese). Mentre in Cina le triadi si confondono con la stessa struttura statale, a Hong Kong esse sono costrette a lavorare nell’illegalità, specialmente a seguito delle rivolte del 1956, che hanno spinto il governo britannico a introdurre misure più rigide per arginare il potere criminale. Da quanto sono riuscito a capire, attualmente la città è divisa in nove distretti controllati da altrettante famiglie (Wo Hop To, Wo Shing Wo, Rung, Tung, Chuen, Shing, Sun Yee On, 14K e Luen) che si arricchiscono attraverso lo spaccio, il riciclaggio del denaro, il gioco d’azzardo, la prosituzione, il furto d’auto e il racket.

Neanche la corruzione nella polizia si è risolta negli anni settanta: qualche giorno fa, mentre passavo davanti a Chungking Mansion, uno dei luoghi più soggetti alla piccola criminalità, ho visto dei poliziotti scherzare con gli stessi indiani che qualche notte prima mi tenevano d’occhio mentre parlavo con la prostituta congolese. Sebbene non sia riuscito a sentire nessuna parola, ho capito dai gesti che si conoscevano bene. Accanto a loro, nel frattempo, le prostitute mettevano in bella vista la loro merce.

Ho fatto finta di niente ed ho attraversato la strada. Seminascosto dietro una palma, ho acchiappato il cellulare e ho tentato di registrare un video. Proprio in quel momento, però, una voce mi ha colto alle spalle: «Are you taking a picture of the prostitutes, man?»

È Abhijit, il mio coinquilino indiano. Lo guardo con gli occhi sgranati: sono imbarazzato perché sarà difficile spiegargli come mai stessi registrando quella scena. Ci provo: «I was taking a video because I need some information to write an article». «Oh, I see...», mi dice poco convinto.

Mentre mi domando cosa stia pensando di me, inziamo a camminare verso casa, poche decine di metri più in là. All’ingresso mi fermo un istante per legarmi una scarpa e noto che anche questa notte c’è Bidà a fare la guardia all’ascensore: «Please, your document!», dice con voce ferma ad Abhijit. Non appena termino di legare la scarpa, li raggiungo. «Hey, good man!», mi dice Bidà aprendo le braccia. «Hi Bidà, how are you doing? He is with me», gli dico io, indicando Abhijit. In un attimo, Bidà restituisce il documento al mio coinquilino e ci dice: «So, it’s all right! Good night happy man!».

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E che dire del razzismo? Mentre camminavo nel cortile del PolyU, i miei occhi si sono fermati in una bacheca dove vi era una locandina sulla quale era rappresentato un divieto sopra un insetto col pancione. Qualche centimetro più sotto vi era scritto: “Say NO to mainland pregnant women”. Il sangue mi si è raggelato per un istante. Qualche giorno fa, leggendo il giornale, ho scoperto che moltissime donne cinesi vengono a partorire a Hong Kong perché il sistema sanitario è migliore e perché in questo modo il loro bambino può usufruire i di tutti i benefici che Hong Kong offre ai propri cittadini e che in Cina, invece, sarebbero privilegi.

«They say we are dogs!», mi spiega Samson, un ragazzo hongkonghese con cui seguo alcuni corsi. «We are dogs, sure, but anyway they come to steal our benefits!». Nelle sue parole c’è rabbia. Mi chiedo se condivida un altro messaggio presente nella stessa bacheca che suona più o meno così: «Mainlands go back to China!». «You know – tenta di giustificare la sua rabbia Samnson – the ones who come here are the richest and they think that only because they have money they can do whatever they want!».

Come sempre, la realtà è molto più complessa di quanto non appaia: il razzismo sembra essere presente da entrambe le parti. In Cina, forse, esso è addirittura incentivato dallo Stato per timore che il modello democratico hongkonghese prenda il sopravvento nell’opinione pubblica.

Se non si trattasse di razzismo, sarebbe persino divertente vedere come agli occhi degli hongkonghesi i mainland appaiano come rozzi contadini ignoranti, mentre per questi ultimi gli hongkonghesi appaiono come incapaci effeminati.

Non posso che pensare all’Italia, alla Lega, ai clandestini e al meridione: sono certo che se nelle bacheche di una qualsiasi università italiana fossero apparsi messaggi simili, ci sarebbero stati coloro che avrebbero gridato allo scandalo e coloro che invece avrebbero appoggiato queste scritte. Nessuno, però, si sarebbe preoccupato di analizzare il problema. Tantomeno di risolverlo.

***

Sto pianificando un viaggio in Cina. Sebbene ancora non sappia quando partirò, ho già avuto modo di cercare i prezzi dei biglietti su internet. Non sono cari e poi mi hanno assicurato che lì la vita è veramente economica. Per me, oltre al viaggio, sarà anche l’occasione per disintossicarmi da Facebook, visto che lì non è concesso utilizzarlo. Forse eviterò anche il cellulare, per provare a vedere l’effetto dell’isolamento totale dopo anni ed anni di schiavitù.

Ad ogni modo, mi hanno consigliato di non andarci da solo. «I cinesi sono rozzi», mi hanno detto. «Non sanno parlare l’inglese e tentano sempre di fregarti se sei straniero». Io ho pensato all’Italia e ai mattoni napoletani. «C’è molta gente povera lì e se dovesse succederti un incidente, nessuno ti aiuta; nessuno ti porta all’ospedale per il timore di dover pagare», mi hanno avvertito. Per questo motivo mi hanno consigliato di indossare una targhetta con scritto in cinese: «Sono assicurato: in caso di incidente portatemi all’ospedale». E io non ho pensato alla targhetta, ho pensato alla miseria.

***

Disteso sul letto, quante volte mi sono detto: «Chiudi gli occhi, trattieni il respiro, rilassati, spegniti...». Tante, ed ogni volta sono rimasto immobile per lunghi secondi, fino a sentire chiaramente il sangue che pulsa nelle orecchie, il rumore delle automobili fuori dalla finestra, le grida di qualcuno nella strada.

In quegli istanti riesco a percepire il volume di ogni muscolo che spasima, che si contrae, come se l’anima si stesse staccando dalla carne, dalle ossa, portandosi via tutto: sogni, ricordi, passato e futuro. Mi chiedo così a cosa serva vivere. A cosa serva ridere, piangere, amare, odiare, soffrire, se poi in un attimo il tuo corpo si raffredda, immobile su un materasso. A cosa serve, se poi le automobili fuori dalla finestra continuano a correre senza destinazione, se la gente continua a gridare per la strada. A cosa serve se poi il tuo corpo viene raccolto, spogliato, lavato e gettato dentro una bara come un sacco di spazzatura. A cosa serve se poi quella bara deve finire sotto terra e con lei finiscono sotto terra anche tutte le tue ambizioni: quelle per cui avevi lottato e quelle sulle quali avevi rinunciato.

Non rimarrà niente, a parte qualche parola che nessuno leggerà. Così tu muori un poco. E sai che non è mai abbastanza.

***

«You’ve cried!». Bidà questa volta non ride. Si è alzato dalla sedia e mi osserva con aria preoccupata: «So your life is not so magic as I thought...», mi dice osservando il mio viso con uno stupore che trasmette anche un senso di delusione.

Io nego, accennando un sorriso. Chiamo l’ascensore e lo saluto col solito inchino, che questa volta sento però fin troppo innaturale. «Bye, good man!», mi saluta Bidà mentre le porte dell’ascensore si chiudono. E la sua voce è soffocata.

È un martedì notte. O un mercoledì mattina. A seconda dei gusti.

[To be continued...]