In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

sabato 7 dicembre 2013

Un Paese perduto

In questi ultimi mesi ho preferito non commentare gli avvenimenti politici nazionali. I miei post su Facebook si sono diradati: la passione politica e sociale ha lasciato spazio a fotografie e pensieri personali. Qualche volta a battute antipatiche e provocatorie.
Dopo la profonda delusione per la sconfitta del Pd di febbraio e l’umiliazione per la rielezione di Giorgio Napolitano, non mi sono più sentito di dovere nulla al dibattito interno. Un dibattito fine a sé stesso. Inascoltato da una classe politica intenta a trovare il modo per sopravvivere ancora un po’.

Non riesco più a leggere nemmeno i giornali. Sembrano raccontare le stesse notizie di un anno fa. Che erano identiche a quelle di due anni fa. Che erano identiche a quelle di tre anni fa. Che...
Berlusconi (non ne posso davvero più di sentire questo cognome) continua ad essere l’agente nei titoli. Il Pd il paziente. “Berlusconi sfida Napolitano”, “Berlusconi pretende la grazia”, “Berlusconi va all’opposizione”.
Solo i toni sembrano mutare leggermente. I giornalisti più acuti, quelli che oltre all’Italia guardano l’estero, iniziano a sentire il peso di dover raccontare un Paese che sta implodendo. Un Paese in cui la forbice tra ricchi e poveri si allarga quotidianamente; in cui i Ministri non si sentono in dovere di dimettersi; in cui un pregiudicato può ancora ricattare Governo e Istituzioni.

Siamo fermi nell’iterazione di un passato che si fa - anno dopo anno - meno glorioso e sempre più imbarazzante.
Non ci sono rotture. Non c’è un vento che spazzi via il tanfo di cadaveri aggrappati a poltrone con unghie e denti. Cadaveri che non hanno alcuna intenzione di migliorare questo Paese, perché in un Paese migliore sarebbero sconfitti, annullati, distrutti.

Intanto il mondo va avanti. Chi si ferma è perduto.

Enrico Santus

I miei occhi, il tuo sguardo --> HONG KONG (6) - DICIOTTO MESI DOPO


E va bene: riprendo in mano la penna. Un po’ perché mi è stato chiesto; un po’ perché è l’unico modo che ho di uccidere la rabbia e l’inquietudine che mi vive dentro.

Di cose da raccontare ne ho tante. I primi giorni qui sono stati molto difficili.

Non appena ho messo piede sul suolo hongkonghese mi è parso di non essermene mai allontanato: l’aria calda e umida, le voci incomprensibili, le luci abbaglianti, gli odori speziati. Tutto era fin troppo noto. Solamente... c’erano frammenti di vita tra le braccia di compagne meravigliose, il sale e il vento dello splendido mare calasettano, i gusti e le risate di lunghe cene con una famiglia sorprendente. Tutto ciò mi ri chiamava indietro, insieme alla nostalgia per una persona che non riuscivo a dimenticare. E poi la solitudine. Quelle unghie che squarciano impietosamente la tua carne, facendoti vedere il resto diverso, inarrivabile, irraggiungibile.

E allora che fai? Stringi i denti. Cerchi di aggrapparti ad ogni appiglio pur di non cadere. Perché sotto c’è l’abisso e tu lo sai.


***


Come la volta precedente, avevo una camera a Chunking Mansion, a Tsim Sha Tsui. Questa volta, però, avendo un pizzico di disponibilità economiche in più, stavo in una singola, con un letto un po’ più grande e comodo della volta precedente.

Chi ha letto le mie note, lo scorso anno, forse ricorderà che Chunking Mansion non è altro che un lurido ghetto per africani, indiani e pakistani, che funge un po’ da tappeto sotto cui nascondere la polvere hongkonghese. Tutta l’area e controllata attraverso telecamere di sorveglianza, ma non saprei dire chi sta dietro gli schermi ad osservare quel che succede. Non sono pochi gli omicidi, gli stupri e le rapine commesse lì dentro.

Quando ci metti piede – specie se non appartieni a nessuna delle nazionalità sopra elencate –, vieni assalito da un indefinibile numero di persone che ti bloccano la strada e ti propongono di andare a dormire nella loro guesthouse o di acquistare i loro rolex e le loro schede telefoniche. Il neo-arrivato che rallenti il passo per ascoltare le offerte, viene agitato e spintonato: lo scopo è quello di attrarre la sua attenzione ed ogni mezzo è legittimo. Le offerte si fanno aggressive, finché una di loro non vince sulle altre; allora le altre voci si abbassano, lasciano che l’offerta vincitrice ti porti verso la destinazione prediletta (generalmente in qualche piano superiore, raggiungibile attraverso grandi ascensori). Sottovoce le altre offerte proseguono, cercano di persuaderti che quella non sia la migliore, ti toccano braccio e mano nella speranza che tu cambi idea.

Io conosco l’andazzo e non rallento. Cammino dritto e taglio in due quel gruppo di persone che è sempre pronto a intercettarti. “No, thanks!”, dico, senza rallentare e cercando di accennare un sorriso. Quando una mano si aggrappa al mio polso, lo scuoto nervosamente e lancio un’occhiata infastidita al suo proprietario.


***

Una settimana: sette giorni di afa, nuvole e pioggia. Tutti passati a districarmi tra questa gente, sudando magliette e camicie, e cercando nel frattempo di intrattenere rapporti coi miei supervisor, trovare un appartamento, iscrivermi all’università, aprire un conto in banca e seguire le mille procedure burocratiche che sempre ti cadono tra capo e collo quando ti trasferisci in un nuovo Paese. Dormivo poco la notte a causa della temperatura e dell’umidità. Quando potevo bevevo per rilassare corpo e mente.

Così ho fatto anche la vigilia del mio compleanno, la notte del 30 agosto. Un gruppo di vecchi amici mi ha aspettato al solito bar in cui l’anno scorso passavo molti venerdì notte. Abbiamo bevuto, riso e cantato insieme. È stata una bellissima serata, ma avevo nel cuore troppo amaro. Da quel bar, non so come, mi sono ritrovato a giocare con dardi e biliardo: che sia riuscito a vincere un match! Quando siamo usciti dal locale, fuori pioveva a dirotto. Erano le sei del mattino. I miei amici, pian piano, si sono volatilizzati dentro taxi rossi. Io ho preferito camminare: la pioggia non mi ha mai spaventato. E quella notte speravo mi portasse via un po’ d’amaro.

L’indomani, il 31 agosto, mi sarei dovuto trasferire, insieme a tutti i bagagli, in un appartamento che avevo trovato a Wan Chai: settai la sveglia per le 9 del mattino, sapendo che non mi sarei mai svegliato. Poi, d’un tratto, mi sono fermato davanti alla serranda abbassata di un negozio. Ho guardato davanti a me: Hong Kong è tutto quello che avevo sognato nell’ultimo anno, quello per cui avevo lottato senza mai arrendermi. Ora c’ero e per esserci avevo dovuto rinunciare a tante, troppe cose.

Mentre pensavo silenziosamente mi sono scoperto a lacrimare. Ho riso di me. Ma quel riso è stato un detonatore: d’un tratto singhiozzi di dolore hanno iniziato a stringermi la gola; i miei muscoli si sono irrigiditi ed ho sentito una forza dentro che non avevo mai percepito prima. La pioggia continuava a battere davanti a me, creando uno strano alone davanti alle insegne luminose e al riflesso dei fari nell’asfalto. L’amaro stava uscendo.




[To be continued...]

venerdì 3 febbraio 2012

I miei occhi, il tuo sguardo -> Hong Kong (5) - FINE PRIMA PARTE

[Previous part at http://www.facebook.com/notes/enrico-santus-aversano/i-miei-occhi-il-tuo-sguardo-hong-kong-4/10150522933842947]

«You’ve always a happy face!». Così mi accoglie Bidà, il guardiano notturno del palazzo, quando sul farsi del mattino torno barcollante per le troppe bevute. «Yours is a very beautiful life!», commenta, anche quelle volte in cui sto semplicemente tornando da una nottata di studio in biblioteca. Io sto al gioco: «Beautiful? I dare to say that mine is a magic life!». Poi chiamo l’ascensore e lo saluto con un inchino. Lui ride e mi risponde: «I’ll se you tomorrow, good man!».

Bidà ha quasi settantanni e porta degli occhiali a goccia. «I was a policeman, you know?», mi ha raccontato una notte. «Really?». «Yes, look...». Ha tirato fuori dalla tasca del cappotto un borsellino con inciso il simbolo della polizia di Hong Kong e mi ha guardato inarcando le sopracciglia: «Can you believe it? I was an inspector for two years for the English department of police». «Wow! But why only for two years?», gli chiedo incuriosito. Lui esita un istante, guarda il borsellino e poi comincia a raccontarmi che nel 1973 la polizia di Hong Kong aveva una bruttissima fama. «As an inspector – mi dice con gli occhi lucidi – I was supposed to collect money from pushers and prostitutes and bring them to the police station…». Erano gli anni in cui si diffondeva l’eroina e ogni giorno vi erano nuovi morti per overdose. Suo padre non poteva accettare che il proprio figlio fosse complice di un sistema tanto corrotto. Un giorno, risoluto, andò nel dipartimento di polizia e lo afferrò per il colletto davanti a tutti i colleghi, dicendogli: «Questo posto sia maledetto: tu qui dentro non ci metti più piede!». E quella fu veramente l’ultima volta che Bidà indossò la divisa.

***

Di sporco ad Hong Kong ce n’è parecchio. Qualche giorno fa, parlando con un amico che vive in questa città da oltre dieci anni, ho scoperto che Tsim Sha Tsui è divisa in zone appartenenti a diverse famiglie. Recentemente – mi ha raccontato François – ci sono stati anche diversi omicidi importanti, tra cui una decapitazione in pieno stile triade.

Appena tornato a casa, non è stato difficile trovare conferma a quanto mi era stato raccontato: su internet sono numerosi gli articoli che spiegano come Hong Kong sia la base di numerose organizzazioni criminali cinesi che operano poi anche all’estero, attraverso le chinatown (dove – udite udite – non si parla mandarino, bensì cantonese). Mentre in Cina le triadi si confondono con la stessa struttura statale, a Hong Kong esse sono costrette a lavorare nell’illegalità, specialmente a seguito delle rivolte del 1956, che hanno spinto il governo britannico a introdurre misure più rigide per arginare il potere criminale. Da quanto sono riuscito a capire, attualmente la città è divisa in nove distretti controllati da altrettante famiglie (Wo Hop To, Wo Shing Wo, Rung, Tung, Chuen, Shing, Sun Yee On, 14K e Luen) che si arricchiscono attraverso lo spaccio, il riciclaggio del denaro, il gioco d’azzardo, la prosituzione, il furto d’auto e il racket.

Neanche la corruzione nella polizia si è risolta negli anni settanta: qualche giorno fa, mentre passavo davanti a Chungking Mansion, uno dei luoghi più soggetti alla piccola criminalità, ho visto dei poliziotti scherzare con gli stessi indiani che qualche notte prima mi tenevano d’occhio mentre parlavo con la prostituta congolese. Sebbene non sia riuscito a sentire nessuna parola, ho capito dai gesti che si conoscevano bene. Accanto a loro, nel frattempo, le prostitute mettevano in bella vista la loro merce.

Ho fatto finta di niente ed ho attraversato la strada. Seminascosto dietro una palma, ho acchiappato il cellulare e ho tentato di registrare un video. Proprio in quel momento, però, una voce mi ha colto alle spalle: «Are you taking a picture of the prostitutes, man?»

È Abhijit, il mio coinquilino indiano. Lo guardo con gli occhi sgranati: sono imbarazzato perché sarà difficile spiegargli come mai stessi registrando quella scena. Ci provo: «I was taking a video because I need some information to write an article». «Oh, I see...», mi dice poco convinto.

Mentre mi domando cosa stia pensando di me, inziamo a camminare verso casa, poche decine di metri più in là. All’ingresso mi fermo un istante per legarmi una scarpa e noto che anche questa notte c’è Bidà a fare la guardia all’ascensore: «Please, your document!», dice con voce ferma ad Abhijit. Non appena termino di legare la scarpa, li raggiungo. «Hey, good man!», mi dice Bidà aprendo le braccia. «Hi Bidà, how are you doing? He is with me», gli dico io, indicando Abhijit. In un attimo, Bidà restituisce il documento al mio coinquilino e ci dice: «So, it’s all right! Good night happy man!».

***

E che dire del razzismo? Mentre camminavo nel cortile del PolyU, i miei occhi si sono fermati in una bacheca dove vi era una locandina sulla quale era rappresentato un divieto sopra un insetto col pancione. Qualche centimetro più sotto vi era scritto: “Say NO to mainland pregnant women”. Il sangue mi si è raggelato per un istante. Qualche giorno fa, leggendo il giornale, ho scoperto che moltissime donne cinesi vengono a partorire a Hong Kong perché il sistema sanitario è migliore e perché in questo modo il loro bambino può usufruire i di tutti i benefici che Hong Kong offre ai propri cittadini e che in Cina, invece, sarebbero privilegi.

«They say we are dogs!», mi spiega Samson, un ragazzo hongkonghese con cui seguo alcuni corsi. «We are dogs, sure, but anyway they come to steal our benefits!». Nelle sue parole c’è rabbia. Mi chiedo se condivida un altro messaggio presente nella stessa bacheca che suona più o meno così: «Mainlands go back to China!». «You know – tenta di giustificare la sua rabbia Samnson – the ones who come here are the richest and they think that only because they have money they can do whatever they want!».

Come sempre, la realtà è molto più complessa di quanto non appaia: il razzismo sembra essere presente da entrambe le parti. In Cina, forse, esso è addirittura incentivato dallo Stato per timore che il modello democratico hongkonghese prenda il sopravvento nell’opinione pubblica.

Se non si trattasse di razzismo, sarebbe persino divertente vedere come agli occhi degli hongkonghesi i mainland appaiano come rozzi contadini ignoranti, mentre per questi ultimi gli hongkonghesi appaiono come incapaci effeminati.

Non posso che pensare all’Italia, alla Lega, ai clandestini e al meridione: sono certo che se nelle bacheche di una qualsiasi università italiana fossero apparsi messaggi simili, ci sarebbero stati coloro che avrebbero gridato allo scandalo e coloro che invece avrebbero appoggiato queste scritte. Nessuno, però, si sarebbe preoccupato di analizzare il problema. Tantomeno di risolverlo.

***

Sto pianificando un viaggio in Cina. Sebbene ancora non sappia quando partirò, ho già avuto modo di cercare i prezzi dei biglietti su internet. Non sono cari e poi mi hanno assicurato che lì la vita è veramente economica. Per me, oltre al viaggio, sarà anche l’occasione per disintossicarmi da Facebook, visto che lì non è concesso utilizzarlo. Forse eviterò anche il cellulare, per provare a vedere l’effetto dell’isolamento totale dopo anni ed anni di schiavitù.

Ad ogni modo, mi hanno consigliato di non andarci da solo. «I cinesi sono rozzi», mi hanno detto. «Non sanno parlare l’inglese e tentano sempre di fregarti se sei straniero». Io ho pensato all’Italia e ai mattoni napoletani. «C’è molta gente povera lì e se dovesse succederti un incidente, nessuno ti aiuta; nessuno ti porta all’ospedale per il timore di dover pagare», mi hanno avvertito. Per questo motivo mi hanno consigliato di indossare una targhetta con scritto in cinese: «Sono assicurato: in caso di incidente portatemi all’ospedale». E io non ho pensato alla targhetta, ho pensato alla miseria.

***

Disteso sul letto, quante volte mi sono detto: «Chiudi gli occhi, trattieni il respiro, rilassati, spegniti...». Tante, ed ogni volta sono rimasto immobile per lunghi secondi, fino a sentire chiaramente il sangue che pulsa nelle orecchie, il rumore delle automobili fuori dalla finestra, le grida di qualcuno nella strada.

In quegli istanti riesco a percepire il volume di ogni muscolo che spasima, che si contrae, come se l’anima si stesse staccando dalla carne, dalle ossa, portandosi via tutto: sogni, ricordi, passato e futuro. Mi chiedo così a cosa serva vivere. A cosa serva ridere, piangere, amare, odiare, soffrire, se poi in un attimo il tuo corpo si raffredda, immobile su un materasso. A cosa serve, se poi le automobili fuori dalla finestra continuano a correre senza destinazione, se la gente continua a gridare per la strada. A cosa serve se poi il tuo corpo viene raccolto, spogliato, lavato e gettato dentro una bara come un sacco di spazzatura. A cosa serve se poi quella bara deve finire sotto terra e con lei finiscono sotto terra anche tutte le tue ambizioni: quelle per cui avevi lottato e quelle sulle quali avevi rinunciato.

Non rimarrà niente, a parte qualche parola che nessuno leggerà. Così tu muori un poco. E sai che non è mai abbastanza.

***

«You’ve cried!». Bidà questa volta non ride. Si è alzato dalla sedia e mi osserva con aria preoccupata: «So your life is not so magic as I thought...», mi dice osservando il mio viso con uno stupore che trasmette anche un senso di delusione.

Io nego, accennando un sorriso. Chiamo l’ascensore e lo saluto col solito inchino, che questa volta sento però fin troppo innaturale. «Bye, good man!», mi saluta Bidà mentre le porte dell’ascensore si chiudono. E la sua voce è soffocata.

È un martedì notte. O un mercoledì mattina. A seconda dei gusti.

[To be continued...]




giovedì 26 gennaio 2012

I miei occhi, il tuo sguardo -> Hong Kong (4)

[Previous part at http://www.facebook.com/note.php?note_id=10150509766557947]

Quanto è lontana l’Italia vista da qui. Una piccola nazione di «gente che si sa divertire» e che – lasciatemelo dire – sa ben dibattere. Ma allo stesso tempo un Paese che troppo a lungo si è concentrato sui suoi passi, senza rendersi conto che il resto del mondo correva.

Ha perfettamente ragione il viceministro Michel Martone a dire che laurearsi a 28 anni (dopo 10 anni di studio) è da sfigati. Quello che Martone non ha considerato – e questo è grave visto il suo ruolo – sono i motivi che spingono gli studenti italiani a tardare così tanto. Insultare è semplice: ci è riuscito persino Brunetta quando sfruttò la parola “bamboccioni” per riferirsi ai cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training); ci riuscirebbe chiunque. Le difficoltà, invece, iniziano quando si prova ad analizzare il problema e capire cosa spinga i giovani a certi comportamenti.

Ho avuto l'opportunità di seguire corsi in alcune tra le più rinomate università al mondo e – devo ammettere – non ho mai incontrato tante difficoltà quante ne trovo a Pisa, in Italia. Il nostro modello universitario è differente, esattamente come sono differenti le prospettive per i giovani che si laureano. Le nostre università, che ritengo tra le migliori al mondo per la preparazione che danno ai loro allievi, da decenni non sono più competitive nel campo della ricerca e dell’applicazione dei saperi. Sono rimaste fabbriche di conoscenza che forse creeranno dotti (come qualcuno ha suggerito), ma – ahimé – non creano né opportunità né ricchezza. Le conseguenze diventano così evidenti: fuori corso e cervelli in fuga.

Ma l’Università non è il solo problema italiano. L’altro, quello fondamentale, è il problema delle liberalizzazioni, che in questi giorni stanno incontrando la solita opposizione conservatrice delle note lobby di tassisti, farmacisti, avvocati, notai e autotrasportatori. Mentre la Cina cerca una ricetta per spodestare gli USA e gli USA ne studiano una per non perdere la leadership, l’Italia rimane là, spersa nel Mediterraneo, alla mercé della Germania e confusa dalle solite bizze sui diritti di questo, di quello e di quell’altro.

Considerando tutto ciò, dovremmo smetterla di stupirci se, mentre dall’altra parte del mondo il Celeste Impero annuncia che nel 2012 le vendite al dettaglio aumenteranno del 10%, nel Bel Paese le famiglie si impoveriscono, con conseguente diminuzione delle vendite al dettaglio per uno 0,3%.

Ciò che è accaduto alla Concordia davanti alle coste dell’Isola del Giglio è una triste metafora di quello che sta avvenendo nel nostro Paese: una nave che cola a picco a pochi metri dalla costa, un comandante che scappa via prima dei passeggeri e un capitano che gli ordina di tornare a bordo senza essere ascoltato. Si tratta di chiari indizi dello stato confusionale in cui si trova la nostra nazione, smarrita in una completa mancanza di valori individuali e sociali.

Forse dovremmo ripartire proprio da qui, dal perdere un minuto per ripensare al nostro ruolo in questa società, preoccupandoci un po’ più del significato che vogliamo attribuire alle nostre azioni, alla nostra dignità, alla nostra esistenza.

Un solo attimo. Forse basterebbe anche quello.

***

Il tavolo è tondo ed anche sovraffollato. Al centro ci sono due pentoloni poggiati sopra delle piastre nei quali bolle del brodo. In quello più lontano da me il brodo è rosso, e spuntano delle verdure; in quello più vicino, invece, il brodo è bianco e al suo interno ci sono ossa di coccodrillo.

Esatto, di coccodrillo. Afferro il mestolo e le pesco: sono molto simili alle ossa di pesce spada. Anche il colore propriamente bianco ricorda vagamente quello delle spine di pesce, dei grandi pesci.

Siamo tutti affamati. Abbiamo dovuto attendere dei ritardatari per quasi un’ora e adesso vorremmo addentare qualcosa, ma i piatti non sono ancora arrivati. Ci guardiamo intorno: siamo circondati da vetrine con oggetti in pelle di coccodrillo e grandi acquari, nei quali nuotano pesci e crostacei, apparentemente ignari del loro destino.

L’Hot Pot all’incrocio tra Chatham road e Mody road è stato uno dei primi locali che ho visto quando sono arrivato a Hong Kong. Non appena messo piede in città, infatti, avevo poggiato la valigia nell’ostello di Chungking Mansion ed ero uscito. Dopo aver superato il solito muro di venditori ambulanti che offrivano ogni sorta di merce, avevo camminato per qualche centinaio di metri in cerca di un locale dove mangiare e, per caso, ero passato proprio vicino a questo hot pot, rimanendo colpito dalla proiezione di immagini di coccodrilli sullo schermo. «Here’s the dishes!», mi dice d’un tratto il cameriere, poggiando alcuni piatti con filetti di carne, funghi e verdure (tra cui pannocchie di mais e altri coloratissimi ortaggi). «This one is ostrich and this one is crocodile!», precisa, indicando i due differenti tipi di carne.

Ci avventiamo sulle magre porzioni con le nostre bacchette e le mettiamo a bollire nelle due pentole per poterle assaggiare. Dopo alcuni minuti, finalmente, possiamo agguantare il cibo. Non appena tiro fuori la carne di coccodrillo dalla pentola rimango deluso: appare coperta di bolle, il che mi fa sospettare che sia grassa. Tento comunque di assaggiarla e scopro di essermi sbagliato: la carne è magrissima e, nonostante sia poco tenera, ha un sapore squisito. A metà tra il pollo e il maiale.

***

Le torri del PolyU sono cilindri di otto piani che si alzano nel cortile del grande campus. Costruite in mattoni rossi, fungono da nodi di collegamento tra i parallelepipedi che – anch’essi alzandosi nel cortile – costituiscono i vari dipartimenti e le varie facoltà dell’Hong Kong Polytechnic University.

Se si accede al PolyU da Cheong Wan Road, si incontra una grande fontana dentro la quale si trova il logo di questo ateneo, che molto ha ereditato dallo stile dei campus britannici. Superata la fontana, si dovranno salire una trentina di scale per raggiungere quello che viene detto il Podium, ovvero una sorta di grande cortile quadrato, circondato dalle torri cilindriche e dalle strutture squadrate dei dipartimenti e delle facoltà. Dentro questo cortile sono presenti aiuole con piante rigorosamente nominate tramite cartellini in metalo e alcune sculture di recente fabbricazione. Negli angoli, poi, vi sono delle guardiole, utili a tenere d’occhio l’area ed evitare intrusioni esterne.

Ogni torre è contrassegnata da una lettera dell’alfabeto latino: entrandovi, si può accedere alla tromba delle scale o all’ascensore. Ad ogni piano è possibile raggiungere due porte che permettono l’accesso ai parallelepipedi di cui si è parlato. Sopra ogni porta sono riportate due lettere che rappresentano rispettivamente il nome della torre da cui si sta accedendo e la torre verso la quale si sta andando: così se si è nella torre G, per esempio, nelle due porte di ogni piano avremo GF e GH, in base alla direzione che desideriamo prendere, ovvero se desideriamo andare verso la torre F o verso la torre H. Passando dentro i corridoi che collegano le torri, si incontrano numerose aule e laboratori e – tra gli uni e gli altri – è possibile vedere una miriade di mobiletti che ogni anno vengono assegnati agli studenti.

Adesso che sapete che il cortile è quadrato e che è circondato da torri cilindriche e parallelepipedi, immaginatevi che di cortili ce ne sono diversi e che è possibile accedere dall’uno all’altro tramite passaggi nel vetre dei parallelepipedi o tramite le torri stesse. In questo modo vi sarete fatti un’idea abbastanza buona di come sia costruito il building dove si trova l’Hong Kong Polytechnic University.

***

È arrivata la Festa di Primavera e con lei l’anno del dragone. Grandi pulizie nelle case per prepararle ad accogliere la fortuna, cena in famiglia per la vigilia, sfilata nel primo giorno del nuovo anno (con tanto di danza del leone) e fuochi d’artificio nel secondo.

Così la Cina celebra il suo segno zodiacale preferito e già gran parte della popolazione si prepara a sfornare bambini. Considerate le pesanti tasse che il governo applica su chi ha più di un figlio, non è difficile incontrare chi ha aspettato fino ad oggi per poter diventare genitore, poiché il segno del drago è considerato il migliore, in quanto associato alla salute, all’armonia e sopratutto alla forza.

Stando alla mitologia cinese, la Festa di Primavera viene fatta risalire ad un’antica leggenda secondo la quale in Cina viveva un mostro chiamato Nian (年) che era solito uscire dalla tana una volta ogni dodici mesi per mangiare esseri umani. Per sfuggire alle sue fauci bisognava spaventarlo attraverso forti rumori e il colore rosso. Forse è proprio per questo che i cinesi sono ancora oggi soliti festeggiare il capodanno con canti, strepitii e fuochi d’artificio, il tutto immerso in una miriade di decorazioni rosse.

La danza del leone, che ho accennato sopra, sembra portare un’eco di questa leggenda: in essa, infatti, un animale dalla testa di leone e il corpo di serpente viene fatto sfilare per le strade e viene guidato attraverso tamburi e bandiere rosse, nonché attraverso un enorme Chupa Chups che gli viene sbandierato davanti quasi debba essere quello il suo prossimo pasto...

I festeggiamenti quest’anno sono iniziati la notte del 22 gennaio: la Festa di Primavera, infatti, si basa sul calendario lunare e ha inizio nel secondo novilunio dopo il solstizio di inverno, chiudendosi poi dopo due settimane con la festa delle lanterne, durante la quale vengono appunto portate in giro ed esposte sulle facciate delle case delle lanterne colorate per guidare gli spiriti beneauguranti nelle proprie abitazioni.

***

Per la cena della vigilia Sanny, la mia insegnante di cinese, mi invia un messaggio e mi invita da lei. Essendo coreana non può festeggiare insieme alla famiglia, per cui ha deciso di invitare qualche amico a casa per una cena tradizionale. Porto una bottiglia di vino francese e un pacco di Ferrero Rocher, qui molto apprezzati.

Il suo appartamento è al sedicesimo piano in un grattacielo di Hung Hom. Il suo soggiorno è arredato con un piccolo divano di fronte a uno schermo LCD sul quale si esibiscono senza interruzione cantanti, maghi e attori, in un varietà che poco si differenzia da quelli che sono soliti accompagnarci alla mezzanotte nei nostri capodanni. Anche i presentatori e i cantanti sembrano ricordare vagamente Pippo Baudo, Carlo Conti e Albano Carrisi. Se non fosse per gli occhi a mandorla, naturalmente. «All chinese are watching this tv-show now!», mi dice Sanny prendendo il cappotto. Io annuisco, poi mi reco verso la vetrata che da sulla strada, sposto la tenda e rimango immobile, sull’orlo di quell precipizio.

Dietro le voci enfatizzate dei presentatori, il rumore dei piatti in cucina, le battute di Sanny che sistema il cappotto da qualche parte. Davanti cinquanta metri di vuoto e poi l’asfalto. In un istante, come in un flash back, rivedo immagini di me bambino. Mia madre che stira davanti alla finestra soleggiata; io che salto sul letto dei miei genitori: salto, salto, salto e ascolto “Falco a metà” di Grignani; dovevo essere a scuola e non c’ero andato; avevo sfregato il termometro nel lenzuolo fino ai 38 gradi per evitare un’interrogazione; mentre sono in aria vedo i pini: lontani, dietro i tetti, e mi sembra di percepirne il profumo. Mi torna alla mente “La nebbia agli irti colli” cantata da Fiorello. E poi Giosué Carducci. E poi Pianto Antico. E la terra d’inverno. Le piogge. L’odore acre. L’erba. Le lumache nel cestino e gli stivali alti. La casa in campagna di una mia zia. Le bottiglie di Ichnusa incastrate nel tronco dell’ulivo contro cui lanciavamo i sassi. E le risa dei miei cugini. E le partite di pallone. E le scarpe rotte. E... «It’s ready!», una mano mi scuote la spalla.

«Oh, sorry!», dico voltandomi e raggiungendo il tavolo, che nel frattempo era stato imbandito. Mi presento alle altre amiche di Sanny e racconto della nostra prima lezione di cinese e delle parole che avevo imparato. Ridono. Una di loro si chiama Bianca. «It’s an italian name!», le dico. «Really? What does it mean?», mi risponde lei, facendomi ricordare tutta la questione dei doppi nomi che avevo scritto nella nota precedente. «White, it means white!», le rispondo. Sorride e riprende a parlare con le altre, senza dare troppo peso alla nuova scoperta.

***

Il vapore si alza dall’orinatoio. Scrollo. Accanto a me, un uomo con delle cuffie alle orecchie e un libro sotto il braccio mi controlla. Mi viene da sorridere. Alzo la braghetta e vado a lavarmi le mani. L’uomo mi si affianca e apre il rubinetto accanto al mio nonostante ce ne fossero molti altri liberi.

Esco dal bagno della biblioteca e punto verso il supermercato per andare a comprarmi qualcosa da mangiare. Dopo qualche passo noto che l’uomo mi sta dietro. Un caso? Provo a verificarlo. Mi fermo a leggere una locandina in un muro e con la coda dell’occhio mi guardo le spalle. L’uomo e lì e finge di guardare il vuoto. Mi domando se far finta di niente, se tornare verso la biblioteca o proseguire verso il supermercato. Devo prendere una decisione rapidamente. Lui intanto non si muove. Mi chiedo cosa possa volere da me.

Riprendo a camminare e mi controllo le spalle. L’uomo ha capito che mi sono accorto di lui e rimane immobile. Continua a guardare il vuoto con le mani in tasca e, di tanto in tanto, mi lancia occhiate. Costeggio un muro: noto che in fondo c’è la possibilità di voltare a sinistra. L’uomo, intanto, ha recuperato qualche passo e si è fermato vicino a un’aiuola. Ormai è palese che mi stia seguendo ed è altrettanto palese che io mi sia accorto di lui. Cosa diavolo vuole?

Giro e mi fermo con le spalle al muro. Conto lentamente fino a tre: uno, due, tre. Poi sbuco nuovamente da dove ero arrivato ed eccolo, l’uomo che mi seguiva aveva affrettato il passo: ce l’ho davanti, a meno di due metri, che mi guarda sorpreso. Non si aspettava che tornassi indietro. «Are you following me?!», gli domando con un tono secco e rabbioso. Lui inizia a ridere nervosamente: «No, no, no, no». Lo ripete numerose volte, allarga le braccia e ride ancora. «Where the fuck are you going then?», gli chiedo io a denti stretti. «There, to my office!», mi risponde indicando uno degli edifici del PolyU, che però so essere la sede delle mense. «Ok – gli dico senza perderlo di vista neanche un istante – so move! Right now!».

[To be continued...]

mercoledì 25 gennaio 2012

I miei occhi, il tuo sguardo -> Hong Kong (3)

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Piacere, mi chiamo Shěn Lì Gōng, ho 25 anni e le mani screpolate.

Spesso, riemergendo da un pensiero contorto, mi scopro ad accarezzarle, esaminarle. La sensazione, in un primo momento, è che non mi appartengano, che siano altro rispetto a quei piccoli palmi rosei e paffuti con cui ero solito giocare. Eccole invece adesso, col dorso coperto da una rada peluria nera sotto la quale affiorano delle vene celesti, che pian piano si immergono per scomparire completamente tra le nocche.

Le sfioro. Sembrano le mani di mio padre. Le mani a cui davo la mano quando ero bambino.

Piacere, mi chiamo Shěn Lì Gōng, e ancora una volta non ho scelto il mio nome. Mi è stato assegnato durante un corso di mandarino e solo più tardi ne ho scoperto il significato: “fare un’azione di merito, dare un contributo”. Chissà, se il suo significato è vero quanto quello di Enrico (“Potente in patria”), allora posso stare sereno. E, sopratutto, potete esserlo voi.

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«L’appuntamento sarebbe dovuto essere qui un quarto d’ora fa», mi dico osservando l’orologio. In quell’istante, una mano mi afferra la spalla. Mi volto: «Gustavo! Eccoti, come stai?».

«Bene, bene... Sapevo che saresti arrivato in ritardo, così sono andato a prenotare un tavolo in quel locale!», mi risponde indicando una vetrina dalla parte opposta della strada. «Com’è il nuovo appartamento?».

«Piccolo, ma si sta bene... I coinquilini sembrano in gamba e alla fine riesco a mettere da parte qualche soldino per le uscite. Il tuo?».

«Abitabile!», ride. «Di certo, se voglio passare una notte con una ragazza la porto in albergo, non in quel buco!».

Non appena apriamo la porta del locale, un campanellino suona, attirando l’attenzione di un cameriere che ci raggiunge e ci indica un tavolo tondo, in marmo, al cui centro c’è un piatto – anch’esso in marmo – che rotea. «Oggi facciamo un dim sum, una cosa tipica di questa zona!».

«Ah, d’accordo. Ho già avuto modo di provarlo, è ottimo... Hai trovato lavoro?».

«Ho alcuni contatti: la settimana prossima devo fare dei colloqui e poi vediamo che mi dicono... Sai come è nato il dim sum?».

«No, come?», mento. Ho capito che vuole fregiarsi di questa conoscenza, per cui lo assecondo.

«Praticamente, il dim sum è una sorta di brunch tipico della Cina cantonese». Esita un attimo. «Lungo la via della seta c’erano molte case che offrivano del tè ai viaggiatori e in un secondo momento hanno iniziato ad abbinarci anche degli spuntini, solitamente cotti al vapore e serviti dentro cestini di legno».

«Ah, ecco! Interessante...», commento sforzandomi di apparire incuriosito.

«Oggi – riprende il discorso con aria saccente – il dim sum, più che un pasto, è diventato una sorta di rituale: le famiglie cinesi lo consumano nei giorni di festa e gli anziani lo prendono dopo gli esercizi mattutini, insieme ai loro nipoti o commentando i giornali con gli amici».

Sorrido. Per un attimo mi sembra di aver letto le medesime informazioni sulla mia guida turistica, ma fingo che esse mi suonino nuove. Fortunatamente in quel momento interviene il cameriere, che ci porge due teiere, una con tè e l’altra con acqua bollente.

«Guarda – mi dice Gustavo, afferrando la mia ciottola e versandoci dentro l’acqua bollente –, i cantonesi usano quest’acqua per pulire le bacchette prima di mangiare. Le puoi infilare nuovamente ogni volta che vuoi pulirle, se non vuoi mischiare i sapori!».

«Si vede che sei stato qui a lungo!», scherzo, nel disperato tentativo di cambiare discorso.

Alcuni secondi più tardi, finalmente ci riesco.

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Dice di chiamarsi Naomi, ma credo che sia piuttosto un nome – per così dire – “d’arte”. L’ho incontrata l’altra sera mentre tornavo a casa dopo qualche bevuta con gli amici. «Hey Darlin, where are you goin?», mi ha detto, nasalizzando ogni suono. È nera, alta un metro e ottanta, due seni eccessivamente grandi e una pancia troppo pronunciata. Mi sono avvicinato, volevo parlarle, capire chi controlla la prostituzione qui.

«I’m going back home, darling», le ho risposto. «You back home? Come on, let’s go to enjoy my big tits», mi ha interrotto, forzando un sorriso che avrebbe voluto coinvolgermi. Poi ha preso il cellulare e ha scritto in un messaggio: «1000 $ HKD», 100 euro. L’ho guardata e ho sorriso scuotendo la testa.

La prostituzione a Hong Kong è la normalità: nei locali è quasi sempre possibile notare qualche ragazza in disparte che beve e dona sorrisi a tutti gli uomini con cui incrocia lo sguardo. Generalmente si tratta di ragazze filippine, mentre le nere – specialmente se non sono particolarmente belle – non hanno la possibilità di vendersi dentro i locali e sono obbligate a rimanere sulla strada, sul marciapiede.

«It’s too much», le ho detto per vedere fino a dove poteva arrivare. Qualche secondo più tardi sul suo cellulare c’era scritto «200 $ HKD», 20 euro.

«Where are you from, Naomi?». «I’m from Congo. Is it ok 200 $ HKD?», ha insistito. «Why do you do this job?», le ho chiesto, evitando ancora una volta la sua domanda. «I have to survive, baby!». Rideva nervosamente. Ho stretto i denti per nascondere la compassione che avrebbe voluto esprimere il mio volto: «Do you have any boss or you are a kind of self-employed?». «Yes, there’s somebody in the opposite walkside», mi ha risposto. E i suoi occhi sono diventati lucidi.

In quel momento ho notato due uomini indiani che ci osservavano dall’altro marciapiede. Entrambi portavano un giubotto in pelle e guardavano dritti nella nostra direzione. Naomi era diventata particolarmente nervosa: sbuffava e sbatteva ripetutamente il pugno sull’anca. D’un tratto, mi ha preso per mano e mi ha portato qualche passo più in là, dove alcune sue colleghe stavano sedute su uno scalino a mangiare delle patatine. Si sono dette qualcosa nella loro lingua e poi hanno riso tutte insieme. In quella posizione, i due indiani col giubotto in pelle non potevano vederci. Ho guardato Naomi ancora una volta, ho pensato alle sue risate tanto forzate quanto incapaci di raggiungermi, e l’ho salutata. I suoi occhi mi sono rimasti incollati alla schiena finché non ho girato il vicolo.

Quella sera ho percorso la strada più lunga per tornare a casa, attento che nessuno mi seguisse.

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I cinesi hanno due nomi. Almeno quelli che lavorano in un contesto internazionale o che, comunque, si trovano a doversi interfacciare con persone di lingue diverse. Il secondo “battesimo” avviene solitamente in età infantile o adolescenziale, quando iniziano i primi contatti con persone di diversa cultura.

Ad assegnare i nomi – per lo più bisillabi – sono spesso gli insegnanti di lingua, ma capita anche che i ragazzi scelgano da sé come chiamarsi.

Se l’assonanza col primo nome è uno dei criteri principali nella scelta, spesso possiedono un ruolo altrettanto importante il gusto e la somiglianza col nome di personaggi famosi o di elementi della cultura cinese. Un ulteriore criterio, infine, è la traduzione letterale di parole che richiamano, nella cultura cinese, referenti importanti.

Questi criteri di scelta, vista spesso l’ignoranza della cultura occidentale, portano a realizzazioni di veri e propri obbrobri: si racconta sul web dell’esistenza di numerosi Milk, Tiger, Rabbit, Hero, King, Champion, etc., per non parlare del povero Broccoli, che aveva scelto questo nome perché gli suonava propriamente italiano.

Sembra, a leggere il web, che molti studenti con nomi buffi abbiano studiato proprio le lingue da cui deriva il loro secondo nome. Che non sia stato qualche professore eccessivamente spiritoso ad assegnarglielo? Mah! Di certo c’è che col secondo nome molte persone assumono anche una seconda identità, che in fondo è quella lavorativa o accademica e che si distingue nettamente dalla prima identità, utilizzata solo in un contesto domestico-familiare. Chissà come se la cava Broccoli tra scuola e lavoro!

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Esco da Sham Shui Po Station. Sono ancora una volta in ritardo. Mi guardo intorno, muovendomi a zig zag nel marciapiede. Devo trovare il 303. Evito le occhiate della gente; osservo la mappa; cerco un punto di riferimento; guardo l’orologio; faccio qualche passo. Eccolo!

«You are late!», mi dice l’impiegato dietro il vetro mentre solleva lentamente gli occhi dalla pratica. «Yes, sorry...», rispondo col fiatone.

Due minuti più tardi sono nella sala d’attesa insieme ad una trentina di persone. L’ufficio immigrazione è pieno di volti stanchi. Guardo il ragazzo nero seduto accanto a me; ha le cuffie nelle orecchie e fissa il monitor coi numeri. Per un attimo lo osservo e mi rattristo al pensiero di ciò che significa “centro immigrazione” e di tutte le altre parole che a questo potrebbero essere collegate: confini, frontiere, dogane... I numeri scorrono rapidi nel monitor. Io tengo d’occhio il mio biglietto e una ragazza che, qualche metro più in là, rimprovera un bambino che stringe un modellino di automobile e non sembra dar troppo peso alla ramanzina. D’un tratto, infatti, rotea su se stesso e schizza via come una palla da biliardo, accompagnando quel movimento con un fruscio che vorrebbe riprodurre il motore dell’automobile gialla.

«Please, come with me!». Un impiegato cinese di mezza età mi invita a seguirlo; ha modi gentili: mi fa notare un errore sul modulo e mi spiega come correggerlo; poi mi invita a lasciare le impronte digitali e a farmi scattare una fotografia. Il flash mi abbaglia, lui ride. «Please, wait there!», mi dice, indicando un’altra sala d’attesa.

Inganno il tempo leggendo le locandine sul muro: in una di esse è rappresentato con colori pastello il porto di Hong Kong. Riconosco alcuni grattacieli che sono solito andare a vedere. Sulla destra della locandina, però, tutto diventa nero, come se un bambino l’avesse pasticciata. Alzo appena gli occhi e leggo: «Corruption writes everything off». Il pensiero corre al mio paese.

Un uomo in divisa mi chiama. È serio: controlla ancora una volta il passaporto; confronta la foto con il mio viso; firma alcuni documenti. Mi scruta ancora un istante e poi mi consegna l’Hong Kong Id Card: «Welcome in Hong Kong, mr. Santus!».

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I ragazzi sono in gamba. Ridono e scherzano. A vederli di notte, nessuno ci investirebbe una lira, invece sono manager di aziende europee che concludono ogni giorno affari per migliaia e migliaia di euro.

Si incontrano in un bar a quattro passi da casa mia e trascorrono la serata a raccontarsi storie, viaggi e a prendersi in giro. Intanto, ingurgitano birre e whisky, oltre che liquori tipici cinesi di cui ancora non conosco il nome. Questo locale, Mes Amis, per loro è una casa è un luogo dove poter condividere esperienze e apprenderne di nuove. Il proprietario del Mes Amis sta ben attento che si trovino bene: spesso si unisce a loro e offre un giro, partecipando naturalmente alla bevuta.

La prima volta che li ho incontrati, gli amici del Mes Amis festeggiavano un compleanno e – come da rito – hanno obbligato il festeggiato a scolare un Flamming Lamborghini, i cui principali ingredienti sono la Sambuca, la Kahlua, il Baileys e il Curaçao, nonché – naturalmente – le calde fiamme. Ero curioso di vedere la preparazione del cocktail quando ho notato che i bicchieri sul bancone erano diventati due. «This is your welcome day in Mes Amis!», mi ha detto uno di loro dandomi una pacca sulla schiena.

In quel momento ho capito che il “welcome day” prevedeva anche il rito d’ingresso nel gruppo. E quale miglior rito se non una bevuta di alcohol e fuoco? Un istante più tardi ero accanto al festeggiato a bestemmiare con una cannuccia in bocca e dietro altre sette o otto persone con le loro macchine fotografiche accese. Davanti a noi il barman e due bicchieri pieni. Sopra ogni bicchiere veniva poggiata una bottiglia, lungo il cui vetro scivolava un liquido infuocato che – una volta raggiunto il bicchiere – sviluppava un forte calore. Proprio in quel momento bisognava succhiare attraverso la cannuccia tutto il contenuto del bicchiere. Qui si chiudono i miei ricordi.

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Uno dei ragazzi del Mes Amis è un poliziotto. Prima che il Famming Lamborghini mi mettesse ko, gli ho chiesto come mai i suoi colleghi scrivessero così tanto e lui mi ha spiegato che gli spetta scrivere relazioni su ogni operazione che fanno: c’è chi lo fa in ufficio e chi invece lo fa in strada. Col suo inglese poco chiaro, però, non ha saputo dirmi su quale tipo di operazioni devono presentare relazione: solo su eventuali reati o anche sul controllo dell’ordine?

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È successo. Succede ogni giorno. Prima o poi tutto cambierà senza che nessuno se ne sia reso conto: il capitalismo penetra nella società cinese attraverso spot, esibizioni, barzellette e – persino – divieti. La strategia funziona, il feedback è ottimo. Una rivoluzione silenziosa, certo, eppure decisiva per il pianeta: non solo per gli equilibri economico-politici, ma anche per quelli ambientali e culturali.

Lo scorso 13 gennaio, a Pechino – una delle ultime capitali del comunismo – la gente è letteralmente impazzita per l’Iphone 4S – grande emblema del capitalismo occidentale – tanto da obbligare le autorità a sospenderne le vendite.

Negli stessi giorni, a Hong Kong – centro finanziario, ma anche importante ponte comunicativo per la Cina – è accaduta una cosa ancora più insolita: a seguito del divieto imposto da Dolce & Gabbana di fotografare la vetrina del proprio negozio, centinaia di persone sono scese in piazza con cartelli e striscioni (e altre migliaia si sono unite su Facebook) per contestare la decisione. Fanatici di moda, potrebbe supporre qualcuno. Certo. Peccato, però, che nel Chinese New Year's flower market, frequentato ogni anno da centinaia di migliaia di persone, molti stand facevano riferimento alla contestazione (come ad esempio nella deformazione in “Dragon & Great year”). Prova del fatto che la questione è penetrata nell’immaginario di Hong Kong. E non solo.

Insomma, il capitalismo seduce la Cina. E i cinesi ne rimangono infatuati.

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Le dita di Sanny avvolgono delicatamente la tazza col cappuccino fumante. «Do you like it?», le chiedo puntando il cappuccino, sulla cui schiuma un barman ha disegnato impropriamente un cuore. Oggi ho deciso di invitarla all’Illy Café di Mody road per la prima lezione di cinese.

Lei, nonostante sia coreana, insegna il mandarino ai bambini ed ha toni e modi molto rilassati. Mi guarda e mi chiede da dove voglia partire. «Let’s start with “ciao, hello”, naturally!», dico calandomi nello stereotipo dell’italiano. «Nǐ hăo!», mi dice sorridendo. «Nǐ che?», dico io in italiano.

Il barman, un ragazzo cinese con degli occhiali troppo grandi per il suo viso, scoppia a ridere. Si diverte a guardare come gesticolo e ogni volta che vengo in questo locale balbetta qualche parola nella mia lingua. Prima o poi gli proporrò di andare a prendere una birra, cosicché possa veramente praticare l’italiano.

«Nǐǐǐ - hăăăo!», scandisce Sanny. Il mandarino – diversamente dal cantonese (tipico di Hong Kong) – ha quattro toni, che hanno per i cinesi lo stesso ruolo che per noi ha l’accento. Riconoscerli non è facile, visto che il nostro orecchio non è abituato. Riprodurli tantomeno. «Niiii haaaaaaao!», dico senza usare alcun tono. Sanny mi guarda perplessa per qualche secondo, poi – con un po’ di clemenza – mi dice: «Good, try it again: Nǐǐǐ - hăăăo!». « Nǐǐǐ - hăăăo!», ripeto io. Scoppia l’applauso. Tutto il bar si blocca un istante e si volta a guardarci. Sanny arrossisce e abbassa il capo. Io li guardo e – consapevole che chi sta lì dentro è attratto dal fascino italiano – parto con una serie di: «Nǐǐǐ - hăăăo! Nǐǐǐ - hăăăo! Nǐǐǐ - hăăăo!».

Il barman mi guarda da dietro il bancone e mi fa un’occhiolino. Ho conquistato il palco.

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La lezione con Sanny è finita un’oretta dopo. Ho imparato a dire “ciao”, “mi piace”, “amico”, “salute” e sopratutto tante parolacce. Sanny, dal canto suo, ha imparato i corrispettivi italiani. Ad ogni modo, al momento della scrittura di questo articolo ho già dimenticato tutto e sono costretto a riprendere in mano l’agenda per ricordare le parole. Il fatto di non riuscire a riprodurre gli accenti, poi, mi ha costretto a registrare la voce di Sanny che legge in ordine i vari termini, seguita poi dalla mia lettura scorretta.

Dopo la lezione abbiamo camminato un po’ verso il porto e abbiamo parlato della diversità delle nostre culture: secondo lei, gli italiani si sanno divertire; secondo me, i cinesi sono dei gran lavoratori. Alla fine ci siamo trovati entrambi a ridere per quel che credevamo l’uno dell’altro.

Quando ci siamo salutati, mi sono avvicinato per darle due baci sulle guance, ma lei si è irrigidita: in Italia, le ho spiegato, tra amici si usa dare due baci sulle guance. Lei ha sgranato gli occhi e ha scosso la testa freneticamente. Poi ha sorriso ed è andata via.

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Si spengono le luci. I fotografi sono appostati davanti alla passerella, gli spettatori, invece, stanno sui fianchi. Eccomi al mio primo fashion show, la prima sfilata di moda a cui abbia mai assistito. Sono seduto in terza fila, proprio dietro i VIP, sorpreso dalla musica e sconvolto dalle ragazze che mi sfilano davanti con abiti che ne esaltano la bellezza. Gambe lunghissime, fisico gracile e sguardo sicuro: i loro passi sono perfettamente coordinati al ritmo della musica e così lo sono le luci che si accendono e si spengono proprio sopra di me.

Avevo sempre evitato questo spettacolo, non ritenendolo capace di suscitare emozioni. Mi sbagliavo: odori, profumi, luci, suoni, attese, silenzi. Tutto contribuisce a calarti in un’atmosfera altra. Unica. Diversa.

Kelly accanto a me scatta fotografie e mi indica particolari che – da inesperto – non potrei notare: le ragazze sono sempre le stesse; dodici. Entrano in scena, sfilano e poi escono per pochi istanti, pronte a rientrare immediatamente con abiti differenti e pettinature che le rendono irriconoscibili.

Si accende la luce. «Chissà quante bambine hanno sognato di diventare modelle?», mi chiedo, mentre la stilista si affaccia per ringraziare il pubblico. Dietro di lei eccole di nuovo, esili ed eleganti come farfalle che nascondono sotto il trucco sacrifici, rinunce, cedimenti e compromessi. «Forse tante quanti sono i bambini che sperano un giorno di diventare scrittori». «Il problema qui – mi dico – sta nella differenza tra la speranza e l’esigenza». Si spengono le luci. Lo show è terminato.

[To be continued...]