In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

domenica 20 marzo 2011

Quando Napoleone sconfisse la coalizione austro-russa nella battaglia di Austerlitz, prese sotto braccio il diplomatico Talleyrand e lo portò nel campo di battaglia per mostrargli i cadaveri dei soldati francesi. Talleyrand, che era uomo da salotto piuttosto che da campo di battaglia, camminava schifato in mezzo a quel mucchio di cadaveri putrescenti senza comprendere i motivi della macabra passeggiata. D'un tratto, superati gli ultimi cadaveri, Napoleone si voltò verso il nobile e guardandolo negli occhi gli disse: "Tutto ciò perché tu sappia quanto è costata questa guerra quando dovrai negoziare la pace".

Ed è proprio chi vuole parlare di pace che porterei sul campo di battaglia di Bengasi. Angelo Del Boca, ad esempio, che sul Manifesto di oggi ha spolverato il ricatto morale del colonialismo per difendere la SUA idea di pace (http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/03/articolo/4330/). Vorrei che dialogasse con la madre di Mohamed Said Mahdi, il cui corpo è stato da poche ore lavato e avvolto in un lenzuolo bianco. Cosa importa se il volto del 24enne è sfigurato? Se l'occhio sinistro non c'è più? Cosa importa se oggi a Bengasi Mohamed è la settantesima vittima?

Farei una bella passeggiata con Del Boca e tutti quei pacifisti che la pensano come lui. Quelli che si sono appellati alle contraddizioni dei nostri leader o all'odor di petrolio per criticare questa guerra; quelli che hanno citato la Costituzione italiana, rifacendosi all'incipit dell'articolo 11 (L'Italia ripudia la guerra) e censurando tutto il resto dell'articolo (L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo).

So che dichiararsi pacifisti permette di dormire sogni tranquilli. So anche che l'indifferenza non sporca le coscienze se avvolta nella bandiera dell'ideologia. E so, infine, quale è stata la logica dei vostri pensieri.

Premessa maggiore: La Libia produce petrolio, il Ruanda non produce niente;

Premessa minore: Si è intervenuti in Libia, ma non in Ruanda;

Conclusione: Si è intervenuti per il petrolio.

Ciò che mi sfugge, però, è la proposta che si estrapola dalle vostre critiche. Una proposta che avrei una certa difficoltà a definire PACIFISTA: "Per coerenza, si lasci che il genocidio prosegua, tanto non è né il primo né l'ultimo dramma africano".

Enrico Santus

venerdì 18 marzo 2011

Davigo: "Un disegno di legge che prende di mira il pubblico ministero" - AEOLO

pubblicata da Aeolo il giorno venerdì 18 marzo 2011 alle ore 19.58

La riforma della Giustizia approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 10 marzo non è piaciuta al consigliere della Corte Suprema di Cassazione Piercamillo Davigo.

In occasione della conferenza sui reati contro la Pubblica Amministrazione tenutosi lunedì pomeriggio in Sapienza, l’ex pm di Mani Pulite l’ha definita «un disegno di legge che prende di mira il pubblico ministero con la chiara intenzione di allontanarlo dal giudice per limitarne l’indipendenza e dalla polizia giudiziaria per limitarne l’efficienza».

Durante l’incontro, al quale hanno partecipato anche la giornalista d’inchiesta Rosaria Capacchione (sotto scorta a causa delle ripetute minacce) e i professori Alberto di Martino e Giovannangelo De Francesco, Davigo ha tenuto a precisare che «Il pubblico ministero non è il rappresentante dell’accusa, ma il rappresentante della legge».

In Italia, hanno detto i relatori, la corruzione è un fenomeno molto diffuso e che raramente si limita ad essere un caso isolato, divenendo così anche sentinella della presenza di strutture criminali organizzate.

«Si tratta di un fenomeno seriale e diffusivo», ha affermato Davigo. Seriale perché chi lo pratica una volta tende a ripeterlo; diffusivo perché necessita di un ambiente favorevole, per cui vengono coinvolti i propri pari ed eliminati gli onesti.

Dall’analisi uscita dalla conferenza, la corruzione non può essere sconfitta semplicemente con nuove norme, specie se si considera – come ha sostenuto Davigo – che negli ultimi 15 anni il Parlamento ha reso più difficili le indagini e i processi: l’Italia dovrebbe piuttosto allinearsi alle convenzioni internazionali e iniziare a preoccuparsi della questione morale.

Requisito fondamentale, infine, è secondo Davigo l’indipendenza degli organi preposti a combatterla: «Del resto – ha concluso il magistrato – il Presidente del Consiglio è stato molto chiaro: “Mani Pulite non sarebbe stata possibile con questa riforma”».

Enrico Santus

giovedì 17 marzo 2011

Auguri all'Italia, auguri agli Italiani

Auguri all'Italia, auguri agli Italiani

pubblicata da Aeolo il giorno giovedì 17 marzo 2011 alle ore 20.26

«Un’espressione geografica», niente di più. Così appariva l’Italia agli occhi del principe austriaco von Metternich nel 1847.

Mancava meno di anno dalla prima guerra d’indipendenza, che vide le insurrezioni di Milano e Venezia contro gli austriaci, l’intervento di Carlo Alberto di Savoia e la formazione di governi provvisori in Toscana e a Roma, e l’Italia veniva schernita perché poco cosciente della propria identità. Schernita perché ignorante della propria storia civile e culturale.

Un’espressione geografica, quell’Italia, che era stata culla dell’Impero Romano e del diritto, ripreso poi in tutto l’Occidente; Un’espressione geografica, quell’Italia, culla anche del Rinascimento, di quel nuovo modo di intendere l’uomo e il mondo dopo gli anni bui del Medioevo. Un’espressione geografica, però, che non sapeva tutto ciò.

L’avevano capito le potenze europee, che durante il Congresso di Vienna se ne erano spartite i brandelli, affidandosi a quei principi di equilibrio e legittimità che avevano l’unico intento di ripristinare e proteggere gli antichi poteri. E tutto ciò in un’epoca di nazionalismi, in cui lingua e valori tradizionali iniziavano ad assumere una carica simbolica capace muovere le masse contro quegli stessi principi conservativi.

L’Italia viveva una situazione anomala, poiché le masse non parlavano una lingua comune, ma dialetti differenti. Inoltre era bassissimo il livello di alfabetizzazione e ancora più basso quello di scolarizzazione.

Il sentimento patriottico necessario a liberare l’Italia dagli occupanti e renderla finalmente una nazione unica e indipendente non poteva nascere se non tra gli intellettuali, gli unici che parlassero in quella “lingua del sì” che Dante per primo promosse a lingua nazionale.

Una lingua ancora troppo elaborata, troppo latineggiante per diventare una lingua popolare. Una lingua che fino ad allora era rimasta prerogativa di cancellerie e scambi epistolari tra scrittori e filosofi, mentre il popolo spesso non era nemmeno in grado di comprenderla. Dovette impegnarsi il Manzoni a “lavare i panni in Arno” per rendere quella lingua più semplice, utilizzando nella terza edizione de “I promessi sposi” quel vocabolario che diverrà poi la base dell’attuale italiano.

Mazzini, Garibaldi, Pisacane, Cattaneo, Saffi, Mameli, i fratelli Bandiera, Cavour. Tutti nomi (e ce ne sono moltissimi altri) che oggi appaiono così normali, così scontati. Forse perché li abbiamo letti mille volte nelle vie e nelle piazze delle nostre città oppure perché semplicemente non riusciamo a guardarci indietro tenendo da parte il senno di poi. Nomi normali, insomma, come se per forza la storia avesse dovuto prendere questa piega. Come se per forza queste persone avessero dovuto sacrificare la loro vita (e qualche volta la loro morte) per la fondazione di questo Paese.

Naturalmente, non è così. Si tratta di persone e, come tali, avrebbero potuto scegliere percorsi di vita più semplici, accettando la dominazione straniera e sopportandone le ingerenze. Ma cosa ne sarebbe stato dell’Italia?

Questo si dovrebbe chiedere chi oggi non festeggia l’Unità, vuoi per orgoglio padano, per orgoglio meridionale o perché semplicemente vede l’Unità d’Italia solamente come una conquista del regno Sabaudo.

Visioni queste che dipendono in gran parte da ricostruzioni storiche poco brillanti, incapaci per lo più di contestualizzare gli avvenimenti e valutare le altre possibili prospettive. Come è possibile, infatti, non riconoscere che dalla conquista Sabauda a oggi l’Italia – seppur attraverso un’alternarsi di eventi positivi e tragici – ha raggiunto un’elevata coscienza sociale e civile, entrando a far parte delle più importanti potenze economiche mondiali e garantendo una vita dignitosa ai propri cittadini? Come è possibile dimenticare che dal 1946 la monarchia sabauda è stata abolita e l’Italia si è costituita in una repubblica fondata su una delle più belle costituzioni che siano mai state scritte?

Piuttosto che credere alla retorica indipendentista, sarebbe bene porsi alcune domande. Che ne sarebbe stato della Padania o del Sud nell’economia globalizzata e in un mondo che tende sempre più a congregare Stati, capacità e conoscenze? Quanta parte del brigantaggio è nata spontaneamente a seguito della cattiva amministrazione del neo-Stato italiano e quanta è stata manovrata dai Borbone nel vano tentativo di riconquistare il potere?

Massimo d’Azeglio, a unità compiuta, disse: «Abbiamo fatto l'Italia ora dobbiamo fare gli italiani». Si tratta di una frase che riacquista un certo valore oggi, soprattutto a seguito della cattiva amministrazione di buona parte del mondo politico, concentrato solamente a proteggere e conservare i propri interessi. Una cattiva amministrazione che non può che ripercuotersi sulla fiducia nelle Istituzioni e quindi anche nel sentimento dei cittadini di sentirsi o meno italiani.

Ed è proprio questo desiderio di italianità che dobbiamo recuperare, un sano sentimento patriottico e unitario che dovrebbe guidarci verso il bene del Paese, perché in fondo non è altro che il bene di noi stessi e delle generazioni che ci seguiranno, come noi abbiamo seguito i nostri padri.

Auguri all’Italia, auguri agli italiani.

Enrico Santus