In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

lunedì 23 maggio 2011

I per... Iglesias - I per... Italia

pubblicata da Aeolo il giorno lunedì 23 maggio 2011 alle ore 12.46
Ci avete tolto tutto. Rubato il presente per cancellarci il futuro.

Tutto, perché è più facile governare una città piegata dal bisogno di una città ambiziosa. È più facile governare chi pensa a sopravvivere, che chi pensa a vivere.

L’avete fatto meticolosamente, in lunghissimi anni di politica sporca di strizzate d’occhio, appalti truccati e strette di mano. Prima nella penombra, poi sempre più alla luce del sole. Avete sorriso e scherzato sulla disperazione della gente, senza mai tentare di porvi rimedio. E mai lo farete, perché è proprio su questa disperazione che costruite il vostro potere.

Avete stuprato questa terra con la fetida politica di scambi e promesse, trasformando il diritto in favore, il giusto in privilegio. Avete disatteso il primo articolo della costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” e DEI RICATTI.

Ed è esattamente una città ricattabile che volevate. Una città debole, ripiegata su se stessa. La provincia di Iglesias è oggi l’ultima in Italia per PIL pro capite (14.346 euro per abitante a fronte dei 25.263 euro della media nazionale), un grande sistema in cui ciascuno dei 27.514 abitanti deve tener conto del vostro potere per vedersi onorare anche quei diritti che sono alla base della costituzione, come è il lavoro appunto.

Vi servivano pance vuote. Vi serviva il meticcio da caccia da lasciare in gabbia e a cui lanciare di tanto in tanto un panino per vincolarlo al vostro volere.

È semplice promettere qualcosa a chi non ha niente. Ma non è questo che fa più male, purtroppo. Addolora molto più vedere che quel panino e quelle ossa rosicchiate che lanciate diventino ragione di invidia e gelosie. Non più diritti, quindi, ma privilegi.

Avete affidato fondi pubblici alle aziende in cambio di assunzioni, obbligato all’assunzione in cambio di voti. Poi, come una bolla, tutto è scoppiato. I troppi dipendenti e la fine dei finanziamenti hanno fatto capire agli stessi imprenditori che il vostro gioco non poteva andare oltre. Sono scappati tutti, lasciando solo cassintegrati e disoccupazione. E l’orto si è fatto sempre più sterile, il frutteto sempre più marcio.

Ci avete tolto tutto. Rubato il presente per cancellarci il futuro. Ma la speranza cammina sulle nostre gambe e le nostre braccia vogliono costruire un mondo nuovo.

Godetevi questi ultimi anni di amara felicità.

Enrico Santus

domenica 17 aprile 2011

Esiste o no un'opinione pubblica nell’Unione Europea?


pubblicata da Aeolo il giorno lunedì 18 aprile 2011 alle ore 1.08


Esiste un’opinione pubblica europea? Nonostante i numerosi investimenti nell’informazione e nella creazione di nuovi canali mediatici comunitari, sembrerebbe di no. Bruxelles non fa notizia.

Durante il workshop “Informazione ed opinione pubblica europea” che si è tenuto domenica mattina all’Hotel La Rosetta si è parlato del perché.

Il fatto che i soggetti europei abbiano una visibilità molto limitata all’interno dei telegiornali italiani dipenderebbe, secondo il giornalista Alessio Cornia, autore del saggio Europocket Tv Italia, dall’utilizzo di un linguaggio poco adatto al pubblico, troppo tecnico e attaccato ai numeri piuttosto che alla notizia. Inoltre, secondo Cornia, il giornalismo italiano è «fortemente basato sul conflitto, per cui non paga un’istituzione, come quella europea, che non batte i pugni».

Ne nasce dunque un’opposizione tra la visione eurocentrica dei corrispondenti e quella dei direttori delle testate, che sanno di doversi confrontare con un pubblico interessato maggiormente alla politica nazionale. Così, per far passare le proprie notizie, i corrispondenti italiani escogitano strategie giornalistiche che perseguono le logiche nazionali, non tanto interessate a diffondere l’identità europea quanto piuttosto a far diventare Bruxelles una semplice sponda del dibattito pubblico nazionale.

Per Gaetano Barresi, capo redattore esteri del giornale di Radio Rai, bisogna gerarchizzare la notizia in base agli interessi del pubblico: «Io ricordo – ha detto – che quando erano stati aboliti i costi di ricarica l’informazione era uscita su tutti i media. Poi, naturalmente, a nessuno interessa la grandezza che devono avere i fusibili».

Altro problema riguarda la formazione. Si è infatti notato che nelle lauree che dovrebbero formare i futuri giornalisti mancano corsi che si occupino di tematiche europee. A proposito di formazione si è anche espresso Anguel Beremliysky, rappresentante della Commissione europea, che ha auspicato all’estensione del programma Erasmus anche al campo del giornalismo, visto che esperienze simili sono già stata applicate fruttuosamente ad altre categorie professionali: «La possibilità di viaggiare negli altri paesi europei e confrontarsi coi colleghi che fanno lo stesso lavoro permette di acquisire nuove competenze», ha affermato Beremliysky.

Fino ad oggi, quindi, l’Unione Europea esiste più come un’entità finanziaria che non come una comunità. La sfida più grande rimane, così, quella di formare i cittadini e diffondere un’identità europea consapevole. Questo risultato non può essere conseguito semplicemente attraverso la traduzione di format giornalistici nazionali nelle lingue dei 27 paesi dell’Unione, ma necessita di media dal forte carattere europeo, come Europocket Tv e RadioNews, un progetto di radio-web proposto venerdì scorso dal direttore di Radio Rai Uno Antonio Preziosi.

Enrico Santus

sabato 16 aprile 2011

Da Euronews a Radionews: polemiche al Festival

pubblicata da Aeolo il giorno sabato 16 aprile 2011 alle ore 9.55

Solleva polemiche la proposta di Antonio Preziosi, direttore di Radio Rai Uno, di fondare una radio pubblica europea che abbia un’identità maggiormente caratterizzata rispetto al progetto attualmente esistente, la Euranet.

Durante la conferenza che si è tenuta venerdì pomeriggio presso la Sala Raffaello dell’Hotel Brufani, sono intervenuti i vice presidenti del Parlamento europeo Roberta Angelilli e Gianni Pittella insieme al rappresentante della Commissione europea Thierry Vissol, all’assistente segretario generale della European Broadcasting Union a Ginevra Giacomo Mazzone e alla giornalista di Rai Parlamento Anna Piras, che ha moderato l’incontro.

Secondo quanto riportato da Pittella, Euranet lascerebbe perplesso anche il presidente José Manuel Barroso, che avrebbe lamentato la sua frammentazione, visto che «tale progetto consiste nell’unione di tante sigle che non condividono nemmeno il palinsesto». Affermazione, questa, che ha suscitato alcune reazioni discordi in sala.

Il progetto annunciato da Preziosi, che ancora deve essere definito nei dettagli dal vice direttore di Radio Rai Uno Vittorio Argento, consisterebbe nella realizzazione di una radio pubblica – probabilmente sul web – in più lingue e con palinsesto unificato, incentrato su programmi di cultura e informazione europea 24 ore su 24. Ciò che la distinguerebbe da Euronet sarebbe principalmente la proposta di una linea editoriale veramente europea, lontana dall’essere una semplice sommatoria delle esperienze nazionali. «Si potrebbero inserire giornali radio, approfondimenti, spazi di interazione e persino intrattenimento», ha detto Preziosi.

Tale progetto potrebbe vedere proprio nella Rai il principale playmaker. Ma ci sono due problemi fondamentali sollevati durante l’incontro: il primo riguarda l’audience, ovvero a chi dovrebbe rivolgersi una radio che tratta in maniera specifica di tematiche che finora hanno riscosso poco interesse anche sui media nazionali; il secondo riguarda invece i costi e la possibilità di trovare finanziamenti.

Per il primo punto, è stata Angelilli a sostenere che ci sia in giro «un’esigenza di informazione europea». La vice presidente del parlamento ha dunque accolto la proposta e, senza fare promesse, si è impegnata a esplorare tutte le strade possibili per dare vita al progetto e trovare i finanziamenti necessari a farlo partire.

«Una radio europea ci permetterebbe di colmare quel deficit democratico che si riscontra oggi in Europa: un divario che allontana i cittadini dalle istituzioni e che non permette la vera fondazione di un’identità europea», ha dichiarato Pittella.

Qualche dubbio è stato sollevato da Mazzone, il quale ha suggerito di partire dall’esperienza accumulata nel progetto già esistente di Euronews, che è un marchio già noto ed è – tra l’altro – «un progetto fortemente voluto dalla Rai». Secondo Mazzone, inoltre, si sta lavorando in un periodo favorevole, visto che dal 2013 sarà reso disponibile uno stock di frequenze che potranno essere applicate anche a progetti paneuropei e nel 2014 ci saranno le elezioni, che punteranno certamente a spingere tutti i canali mediatici.

Perplesso invece Vissel, che ha evidenziato i possibili costi del progetto, precisando inoltre che – diversamente da quanto era stato detto – Euronet prevede un coordinamento giornaliero. «I costi sono limitati: probabilmente molto più di quanto possiamo immaginare!», ha ribattuto prontamente Preziosi. «Considerata la condizione di austerity – ha aggiunto – potremmo partire con un progetto pilota, per poi svilupparlo man mano».

Mentre intanto si attendono i dettagli del progetto, i vice presidenti Angelilli e Pittella inizieranno a valutare insieme ai loro colleghi se esistono le prospettive per portarlo a compimento.

Enrico Santus

venerdì 15 aprile 2011

Il giornale, l’ossatura delle democrazie ai tempi del web


pubblicata da Aeolo il giorno venerdì 15 aprile 2011 alle ore 17.43




Non è vero che il giornalismo e la carta stampata moriranno a causa del web. Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo Editoriale Espresso, è categorico: «Non solo il giornalismo non è destinato a morire nel XXI secolo, ma sarà sempre più un’infrastruttura portante delle nostre imperfette democrazie».

Introdotto da Massimo Mucchetti, vice direttore del Corriere della Sera, l’editore di Repubblica è intervenuto venerdì mattina al Teatro del Pavone di Perugia, in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo. «Un giornale – ha affermato – non può e non vuole vincolare i lettori alla sua opinione, ma può e deve aiutare i cittadini a farsi un’opinione. E lo può e deve fare non solo portando loro le informazioni, ma anche selezionandole e inserendole in un contesto».

Dunque, non bisogna temere che la funzione di mediazione svolta dai giornali non sia più necessaria: proprio in un periodo in cui milioni di informazioni viaggiano disordinatamente nella rete c’è bisogno di un buon giornalismo, capace di selezionare, ordinare, interpretare e proporre ai cittadini una rappresentazione della realtà il cui scopo non sia semplicemente informare, ma rendere più consapevoli i lettori. Questa idea di giornalismo nasce dal timore dell’editore che la moltiplicazione dell’informazione sul web si traduca semplicemente in un rumore di fondo da cui possono emergere le peggiori leadership populiste.

Ciò non significa, comunque, che il giornalismo non debba cambiare. Mentre un tempo si cambiava il modo di fare giornalismo ogni 50 anni, oggi la nascita di nuove tecnologie e nuovi strumenti impone un mutamento ogni due anni. La parola chiave per non soccombere diventa così “innovazione”: un’innovazione, però, che non può prescindere dalla necessità di affidarsi a giornalisti intellettualmente preparati e capaci di gerarchizzare le notizie. «Un tempo – ha detto De Benedetti – il giornalista doveva scovare le notizie; oggi il suo ruolo è più quello di selezionarle», così che possa continuare a svolgere quel ruolo di «cane da guardia del potere», necessario per assicurare la salute della democrazia.

Secondo l’editore torinese, il giornalista deve mantenere una certa indipendenza intellettuale, non adeguandosi troppo al mainstream editoriale: «Dovrebbe tenere un piede fuori e uno dentro, onde evitare di diventare una semplice propaggine del proprio editore».

Per quanto riguarda invece il web, De Benedetti lo reputa un’importante mezzo che i giornali possono e devono sfruttare per costituire delle “isole di informazione” che garantiscano la rilevanza e la qualità della notizia, in opposizione alla miriade di informazioni destrutturate che si trovano sul web.

Insomma, dietro il Gruppo Espresso c’è un’impresa editoriale conscia della propria identità, che – in quanto impresa – mira al profitto, ma anche a portare avanti una particolare «visione del mondo e del proprio Paese, in nome di quella che Piero Gobetti chiamava “una certa idea dell’Italia”».

Enrico Santus

mercoledì 13 aprile 2011

Calabria: il caro prezzo del giornalismo

pubblicata da Aeolo il giorno mercoledì 13 aprile 2011 alle ore 21.35



Lettere intimidatorie, proiettili, auto bruciate, intrusioni, furti, minacce, aggressioni. Questo il tema dell’incontro tenutosi mercoledì pomeriggio alle 18:30 presso la Sala Lippi dell’UniCredit, organizzato in collaborazione con l’Associazione Giornalisti Scuola di Perugia.

La conferenza, intitolata “Cronache dalla Calabria: volti e storie dei giornalisti minacciati dalla ‘ndrangheta”, ha visto la partecipazione di Pierpaolo Bruni, PM della procura di Catanzaro, Riccardo Giacoia, giornalista del TG1, Lucio Musolino, collaboratore de Il Fatto Quotidiano e La7, Roberto Rossi, giornalista e scrittore.

Gli ospiti hanno raccontato la loro esperienza personale, evidenziando il triste primato della Calabria nelle minacce ai giornalisti: sono stati registrati, infatti, ben 20 episodi tra il 2009 e il 2010 su un totale di 55 su scala nazionale.

Come ha fatto notare Roberto Rossi, la crescita di questo fenomeno è avvenuta negli ultimi anni anche a seguito di due avvenimenti principali: la nascita, 14 anni fa, del “Quotidiano della Calabria”, che ha abbandonato la mera cronaca per cercare di fare luce sul fenomeno nel complesso; la nascita di “Calabria ora”, un giornale composto da giovani redattori che «volendo affermarsi facevano anche del giornalismo un po’ indisciplinato, ma comunque importante al fine di portare l’attenzione sul fenomeno criminale», come ha spiegato Rossi.

Un attenzione, quella di “Calabria ora”, che non è piaciuta ai poteri mafiosi, che hanno reagito con minacce ai giornalisti e all’intera redazione, costringendo l’editore a seguire una linea più attenta e moderata. Uno dei giornalisti minacciati, Lucio Musolino, ha raccontato la sua vicenda, iniziata nel maggio 2010, quando – dopo la pubblicazione di un’informativa che riguardava il rapporto tra politica e ‘ndrangheta – il suo ex direttore è stato costretto alle dimissioni insieme ad altri otto redattori.

Da allora tutto cambia: a Musolino vengono censurati i pezzi dove figurano nomi di politici; gli viene proposto il trasferimento a Lamezia terme o Catanzaro; si avvia una campagna mediatica che lo trasforma da buon giornalista a giustizialista, “forcaiolo”. «A loro piacciono i giornalisti maggiordomi, quelli che copiano e incollano i comunicati stampa e non quelli che cercano di capire i rapporti tra mafia e politica», si è sfogato il giovane giornalista.

D’accordo anche Riccardo Giacoia, che ha raccontato il clima al TG1: «Non voglio parlarne perché ho un mutuo da pagare», ha scherzato, per poi raccontare come ha pubblicato alcune sue inchieste: «Ho approfittato dell’assenza del vicedirettore di turno e della buona fede di qualche collega, convincendolo della bontà del servizio».

«La ndrangheta – ha spiegato Paolo Bruni – se la prende coi giornalisti per la stessa ragione con cui se la prende con noi magistrati: perché possiamo abbattere l’omertà, quel cono d’ombra dentro cui si nasconde». Il magistrato ha poi aggiunto: «La differenza tra magistrato e giornalista è che mentre il primo deve trattare solo fatti provati, l’altro deve anche rendere noti quei comportamenti sospetti, come gli incontri nei salotti tra persone che non dovrebbero essere sedute sullo stesso divano».

Insomma, il giornalista in Calabria è spesso costretto a pagare un caro prezzo per eseguire onestamente il proprio lavoro, ma ciò non deve scoraggiarlo: ritirarsi significa perdere, significa comprimere il diritto dei cittadini ad essere informati. Un diritto che sta alla base della stessa democrazia.

Enrico Santus

SAVIANO: BLOCCHIAMO LA MACCHINA DEL FANGO

pubblicata da Aeolo il giorno mercoledì 13 aprile 2011 alle ore 12.03



È iniziato con una battuta l’intervento di Roberto Saviano al Teatro Pavone di Perugia per inaugurare il Festival del Giornalismo: «Biagi mi aveva detto scherzando che sarei stato odiato per quello che scrivevo. Mi disse: “Per esempio, quando diverrai primo, verrai odiato dal secondo che hai superato”. Così quando l’editore mi chiamò per dirmi che ero primo in classifica sono corso a vedere chi avevo superato: il Papa».

Scrosci d’applausi e poi via, a raccontare la macchina del fango. Quel sistema di delegittimazione che si mette in moto ogni volta che il potere viene criticato e si sente in pericolo. Un sistema a orologeria, infallibile, che si radica nella psicologia della gente. Anche di quella brava, ingenua, in buona fede.

È un allarme quello lanciato da Saviano: «Se ti opponi – ha detto – non sarai ucciso (almeno non per adesso), ma di certo sarai delegittimato: faranno in modo che le tue parole perdano valore e useranno il metodo dell’insinuazione».

Lo scrittore non ha dubbi: la strategia che sta portando avanti il potere non è quella di difendersi, ma quella di delegittimare. Il meccanismo è quello che sta alla base di messaggi come: “Guardate che queste cose le fanno tutti: tutti hanno gli scheletri nell’armadio. Tutti sporchi, nessuno sporco”.

È la cosiddetta “logica del peggiore”. Quella che ci permette di pulirci la coscienza pensando che anche chi si è dimostrato più bravo, coerente e coraggioso di noi sia comunque corrotto. È tutta una grande giustificazione per tenerci mediocri, per non permetterci più di riconoscere cosa è giusto da cosa è sbagliato, cosa è meglio da cosa è peggio: «Tutti sbagliano – ha precisato Saviano – siamo uomini. Però una cosa è aver sbagliato, una cosa è essere corrotti».

La macchina del fango non mira a rafforzare i nemici delle vittime, ma a indebolire e spaccare i loro amici. Vuole isolarle, farle passare per bugiarde, instillando il dubbio dell’onestà. Secondo la logica perversa della macchina del fango, deve esserci qualcosa di sporco dietro queste persone, altrimenti non si sarebbero esposte tanto. In questo modo Don Peppe Diana era un pedofilo o conservava armi; Falcone era un arrivista televisivo; Boffo un omosessuale; Fini il proprietario occulto di un appartamento a Monte Carlo.

Le vittime sono giornalisti, politici, magistrati, attivisti. In poche parole tutti coloro che si oppongono al sistema di potere: sia esso quello mafioso o quello legale.

L’arsenale della macchina del fango è composta dai megafoni mediatici, ma anche dalle migliaia o milioni di bocche delle persone innocenti, che spesso perpetuano l’insinuazione senza sapere il male che fanno. «Durante una trasmissione televisiva – ha raccontato Saviano – una ragazza chiese a Falcone senza alcuna malignità: “Ma se lei ancora vivo, chi la difende?”. Falcone abbassò la testa, guardò il pavimento e poi rispose: “Per essere creduti dobbiamo morire”. Corrado Augias, che lo stava intervistando, notò la durezza della constatazione e Falcone, sempre guardando a terra, commentò ancora una volta: “È vero, è così”».

Prima di chiudere il suo intervento, Saviano ha lanciato un appello a tutti coloro che si trovavano al Teatro Pavone e coloro che seguivano la diretta attraverso internet o Sky: «È facilissimo cascare dentro queste insinuazioni, anche in buona fede: così le si perpetua, le si diffonde ancora di più. Io mi appello ad ogni individuo, uomo e donna, che mi sta ascoltando: quando sentirete delle accuse che non sono critiche, ma sono la solita “sono tutti la stessa schifezza”, puro fango, fermatele. Aiutate la difesa di chi cerca un percorso diverso, cosicché possa andare avanti».

Enrico Santus

venerdì 1 aprile 2011

Gino Strada: "Un blocco navale intorno alla Caserma"

pubblicata da Aeolo il giorno venerdì 1 aprile 2011 alle ore 18.27




È stato accolto da un lungo applauso Gino Strada, intervenuto lunedì scorso nella Sala Azzurra della Scuola Normale per parlare dell’inadeguatezza della guerra come metodo di risoluzione dei conflitti. In occasione degli incontri del Bicentenario, il fondatore di Emergency ha ribadito che «la pace dovrebbe essere ovvia, scontata, mentre la guerra dovrebbe essere abolita, diventare un tabù al pari di schiavitù e incesto».

La sua idea – che sta anche alla base di Emergency, l’ONG italiana che dal 1994 ha curato oltre 4 milioni di persone nei teatri di guerra – partì, vent’anni fa, dall’esame dei registri operatori degli ospedali della Croce Rossa di Kabul, nei quali risultava chiaro come l’83% dei 12.000 pazienti operati non avesse preso parte agli scontri. «Nei conflitti odierni – ha detto Strada – le vittime civili sono oltre il 90%, a prescindere da chi li promuove e quali ne siano le motivazioni».

Inoltre, a spingerlo su così decise posizioni c’è la convinzione che anche qualora le guerre abbattano i tiranni, non riescano comunque a sconfiggere le logiche violente che essi rappresentano: lo dimostra il riarmo seguito al 1945. «Da quanto riporta l’Istituto di Ricerca sulla Pace di Stoccolma – ha dichiarato il chirurgo – oggi si spendono 50.000 $ al secondo per le armi, l’equivalente di ciò con cui vivono 2 miliardi di poveri».

Premettendo che la guerra è sempre una scelta e mai una necessità, il fondatore di Emergency ha suggerito di affidarsi maggiormente al manifesto per il disarmo lanciato nel 1955 da Russel e Einstein piuttosto che a «una classe politica che pensa solamente ai propri interessi, senza consultare il popolo nemmeno su quelle scelte che ne condizionano la vita quotidiana, come la privatizzazione di sanità e istruzione».

A tale proposito, Strada ha anche commentato la decisione di realizzare l’Hub militare a Pisa: «Mi piacerebbe sapere con quale partecipazione democratica siano state prese tali decisioni: non mi pare di aver visto pisani molto sensibili alla guerra, coi volti truci e gli elmetti in testa. 60 milioni di euro per un centro di istruzione, cultura e ricerca sarebbero stati spesi meglio».

Infine, per impedire che la “Giornata della solidarietà” del 28 aprile prossimo venga organizzata presso la Caserma, Gino Strada ha scherzato citando la proposta leghista contro gli sbarchi a Lampedusa: «Fate un blocco navale davanti alla caserma!».

Enrico Santus

domenica 20 marzo 2011

Quando Napoleone sconfisse la coalizione austro-russa nella battaglia di Austerlitz, prese sotto braccio il diplomatico Talleyrand e lo portò nel campo di battaglia per mostrargli i cadaveri dei soldati francesi. Talleyrand, che era uomo da salotto piuttosto che da campo di battaglia, camminava schifato in mezzo a quel mucchio di cadaveri putrescenti senza comprendere i motivi della macabra passeggiata. D'un tratto, superati gli ultimi cadaveri, Napoleone si voltò verso il nobile e guardandolo negli occhi gli disse: "Tutto ciò perché tu sappia quanto è costata questa guerra quando dovrai negoziare la pace".

Ed è proprio chi vuole parlare di pace che porterei sul campo di battaglia di Bengasi. Angelo Del Boca, ad esempio, che sul Manifesto di oggi ha spolverato il ricatto morale del colonialismo per difendere la SUA idea di pace (http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/03/articolo/4330/). Vorrei che dialogasse con la madre di Mohamed Said Mahdi, il cui corpo è stato da poche ore lavato e avvolto in un lenzuolo bianco. Cosa importa se il volto del 24enne è sfigurato? Se l'occhio sinistro non c'è più? Cosa importa se oggi a Bengasi Mohamed è la settantesima vittima?

Farei una bella passeggiata con Del Boca e tutti quei pacifisti che la pensano come lui. Quelli che si sono appellati alle contraddizioni dei nostri leader o all'odor di petrolio per criticare questa guerra; quelli che hanno citato la Costituzione italiana, rifacendosi all'incipit dell'articolo 11 (L'Italia ripudia la guerra) e censurando tutto il resto dell'articolo (L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo).

So che dichiararsi pacifisti permette di dormire sogni tranquilli. So anche che l'indifferenza non sporca le coscienze se avvolta nella bandiera dell'ideologia. E so, infine, quale è stata la logica dei vostri pensieri.

Premessa maggiore: La Libia produce petrolio, il Ruanda non produce niente;

Premessa minore: Si è intervenuti in Libia, ma non in Ruanda;

Conclusione: Si è intervenuti per il petrolio.

Ciò che mi sfugge, però, è la proposta che si estrapola dalle vostre critiche. Una proposta che avrei una certa difficoltà a definire PACIFISTA: "Per coerenza, si lasci che il genocidio prosegua, tanto non è né il primo né l'ultimo dramma africano".

Enrico Santus

venerdì 18 marzo 2011

Davigo: "Un disegno di legge che prende di mira il pubblico ministero" - AEOLO

pubblicata da Aeolo il giorno venerdì 18 marzo 2011 alle ore 19.58

La riforma della Giustizia approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 10 marzo non è piaciuta al consigliere della Corte Suprema di Cassazione Piercamillo Davigo.

In occasione della conferenza sui reati contro la Pubblica Amministrazione tenutosi lunedì pomeriggio in Sapienza, l’ex pm di Mani Pulite l’ha definita «un disegno di legge che prende di mira il pubblico ministero con la chiara intenzione di allontanarlo dal giudice per limitarne l’indipendenza e dalla polizia giudiziaria per limitarne l’efficienza».

Durante l’incontro, al quale hanno partecipato anche la giornalista d’inchiesta Rosaria Capacchione (sotto scorta a causa delle ripetute minacce) e i professori Alberto di Martino e Giovannangelo De Francesco, Davigo ha tenuto a precisare che «Il pubblico ministero non è il rappresentante dell’accusa, ma il rappresentante della legge».

In Italia, hanno detto i relatori, la corruzione è un fenomeno molto diffuso e che raramente si limita ad essere un caso isolato, divenendo così anche sentinella della presenza di strutture criminali organizzate.

«Si tratta di un fenomeno seriale e diffusivo», ha affermato Davigo. Seriale perché chi lo pratica una volta tende a ripeterlo; diffusivo perché necessita di un ambiente favorevole, per cui vengono coinvolti i propri pari ed eliminati gli onesti.

Dall’analisi uscita dalla conferenza, la corruzione non può essere sconfitta semplicemente con nuove norme, specie se si considera – come ha sostenuto Davigo – che negli ultimi 15 anni il Parlamento ha reso più difficili le indagini e i processi: l’Italia dovrebbe piuttosto allinearsi alle convenzioni internazionali e iniziare a preoccuparsi della questione morale.

Requisito fondamentale, infine, è secondo Davigo l’indipendenza degli organi preposti a combatterla: «Del resto – ha concluso il magistrato – il Presidente del Consiglio è stato molto chiaro: “Mani Pulite non sarebbe stata possibile con questa riforma”».

Enrico Santus

giovedì 17 marzo 2011

Auguri all'Italia, auguri agli Italiani

Auguri all'Italia, auguri agli Italiani

pubblicata da Aeolo il giorno giovedì 17 marzo 2011 alle ore 20.26

«Un’espressione geografica», niente di più. Così appariva l’Italia agli occhi del principe austriaco von Metternich nel 1847.

Mancava meno di anno dalla prima guerra d’indipendenza, che vide le insurrezioni di Milano e Venezia contro gli austriaci, l’intervento di Carlo Alberto di Savoia e la formazione di governi provvisori in Toscana e a Roma, e l’Italia veniva schernita perché poco cosciente della propria identità. Schernita perché ignorante della propria storia civile e culturale.

Un’espressione geografica, quell’Italia, che era stata culla dell’Impero Romano e del diritto, ripreso poi in tutto l’Occidente; Un’espressione geografica, quell’Italia, culla anche del Rinascimento, di quel nuovo modo di intendere l’uomo e il mondo dopo gli anni bui del Medioevo. Un’espressione geografica, però, che non sapeva tutto ciò.

L’avevano capito le potenze europee, che durante il Congresso di Vienna se ne erano spartite i brandelli, affidandosi a quei principi di equilibrio e legittimità che avevano l’unico intento di ripristinare e proteggere gli antichi poteri. E tutto ciò in un’epoca di nazionalismi, in cui lingua e valori tradizionali iniziavano ad assumere una carica simbolica capace muovere le masse contro quegli stessi principi conservativi.

L’Italia viveva una situazione anomala, poiché le masse non parlavano una lingua comune, ma dialetti differenti. Inoltre era bassissimo il livello di alfabetizzazione e ancora più basso quello di scolarizzazione.

Il sentimento patriottico necessario a liberare l’Italia dagli occupanti e renderla finalmente una nazione unica e indipendente non poteva nascere se non tra gli intellettuali, gli unici che parlassero in quella “lingua del sì” che Dante per primo promosse a lingua nazionale.

Una lingua ancora troppo elaborata, troppo latineggiante per diventare una lingua popolare. Una lingua che fino ad allora era rimasta prerogativa di cancellerie e scambi epistolari tra scrittori e filosofi, mentre il popolo spesso non era nemmeno in grado di comprenderla. Dovette impegnarsi il Manzoni a “lavare i panni in Arno” per rendere quella lingua più semplice, utilizzando nella terza edizione de “I promessi sposi” quel vocabolario che diverrà poi la base dell’attuale italiano.

Mazzini, Garibaldi, Pisacane, Cattaneo, Saffi, Mameli, i fratelli Bandiera, Cavour. Tutti nomi (e ce ne sono moltissimi altri) che oggi appaiono così normali, così scontati. Forse perché li abbiamo letti mille volte nelle vie e nelle piazze delle nostre città oppure perché semplicemente non riusciamo a guardarci indietro tenendo da parte il senno di poi. Nomi normali, insomma, come se per forza la storia avesse dovuto prendere questa piega. Come se per forza queste persone avessero dovuto sacrificare la loro vita (e qualche volta la loro morte) per la fondazione di questo Paese.

Naturalmente, non è così. Si tratta di persone e, come tali, avrebbero potuto scegliere percorsi di vita più semplici, accettando la dominazione straniera e sopportandone le ingerenze. Ma cosa ne sarebbe stato dell’Italia?

Questo si dovrebbe chiedere chi oggi non festeggia l’Unità, vuoi per orgoglio padano, per orgoglio meridionale o perché semplicemente vede l’Unità d’Italia solamente come una conquista del regno Sabaudo.

Visioni queste che dipendono in gran parte da ricostruzioni storiche poco brillanti, incapaci per lo più di contestualizzare gli avvenimenti e valutare le altre possibili prospettive. Come è possibile, infatti, non riconoscere che dalla conquista Sabauda a oggi l’Italia – seppur attraverso un’alternarsi di eventi positivi e tragici – ha raggiunto un’elevata coscienza sociale e civile, entrando a far parte delle più importanti potenze economiche mondiali e garantendo una vita dignitosa ai propri cittadini? Come è possibile dimenticare che dal 1946 la monarchia sabauda è stata abolita e l’Italia si è costituita in una repubblica fondata su una delle più belle costituzioni che siano mai state scritte?

Piuttosto che credere alla retorica indipendentista, sarebbe bene porsi alcune domande. Che ne sarebbe stato della Padania o del Sud nell’economia globalizzata e in un mondo che tende sempre più a congregare Stati, capacità e conoscenze? Quanta parte del brigantaggio è nata spontaneamente a seguito della cattiva amministrazione del neo-Stato italiano e quanta è stata manovrata dai Borbone nel vano tentativo di riconquistare il potere?

Massimo d’Azeglio, a unità compiuta, disse: «Abbiamo fatto l'Italia ora dobbiamo fare gli italiani». Si tratta di una frase che riacquista un certo valore oggi, soprattutto a seguito della cattiva amministrazione di buona parte del mondo politico, concentrato solamente a proteggere e conservare i propri interessi. Una cattiva amministrazione che non può che ripercuotersi sulla fiducia nelle Istituzioni e quindi anche nel sentimento dei cittadini di sentirsi o meno italiani.

Ed è proprio questo desiderio di italianità che dobbiamo recuperare, un sano sentimento patriottico e unitario che dovrebbe guidarci verso il bene del Paese, perché in fondo non è altro che il bene di noi stessi e delle generazioni che ci seguiranno, come noi abbiamo seguito i nostri padri.

Auguri all’Italia, auguri agli italiani.

Enrico Santus


sabato 5 febbraio 2011

[AEOLO NEWS] - Aeolo VI, uscita e presentazione!

pubblicata da Aeolo il giorno sabato 5 febbraio 2011 alle ore 15.17




Gentile lettore/trice,

siamo felici di informati dell'uscita, in questi giorni, del nuovo numero di Aeolo.

Il tema di questo numero è la criminalità organizzata analizzata da prospettive fra loro differenti, raccontata da punti di vista differenti.

L’idea di dedicare l’intero numero a quest’argomento nasce da un ciclo di seminari tenuti da Roberto Saviano alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Alla voce di Saviano, nelle pagine della rivista, s’intrecciano quelle altrettanto autorevoli, in materia, di Umberto Santino, Jose Pirjevec, Davide Barletti, Anaïs Ginori, Giovanni Giovannetti, Laura Sanna.

A impreziosire il numero accorre anche la bella intervista a Massimo Ciancimino, realizzata dal nostro direttore Enrico Santus e dalla redattrice Giorgia Santaera.

Aeolo IV – La criminalità organizzata sarà presentato il 17 febbraio presso il Teatro Lux di Pisa (Piazza Santa Caterina) alle ore 19:00. L’evento sarà anticipato da un aperitivo cui seguiranno la presentazione della rivista e una lettura dei testi più rappresentativi.

Il numero - edito da Felici Editori al prezzo di 4,90 € - è disponibile dai primi di Febbraio in molte librerie, edicole, in tutta Italia (i punti di distribuzione, nel dettaglio, li trovate qui).

Inoltre, è possibile abbonarsi contattando la redazione all’indirizzo aeolo.red@gmail.com o direttamente sul sito www.aeolo.it. Registrandosi al sito è anche possibile leggere i numeri precedenti gratuitamente.

Nel ringraziarti per l'interesse, ti porgiamo i più

Cari Saluti

Ufficio stampa Aeolo

(Andrea Corsiglia)

Tirreno, 2 febbraio 2011

giovedì 3 febbraio 2011

A Pisa si cerca più "Escort" che "Aereo"

La parola “escort”, ormai entrata nel dizionario comune a seguito dei ripetuti scandali che hanno coinvolto il Premier Silvio Berlusconi, ha una storia lunga, che l’ha vista passare – per così dire – di gente in gente, nascendo probabilmente dal latino *excorrigere (“raddrizzare”) per giungere attraverso l’italiano e il francese medievale alla forma inglese “escort”, così come la conosciamo oggi. Forma, tra l'altro, derivante dall'uso di alcune agenzie che - negli anni Settanta - facevano accompagnare i businessman londinesi da belle e giovani ragazze, senza troppo preoccuparsi di cosa tra queste e il businessman accadesse, onde evitare l'accusa di sfruttamento della prostituzione.

E se è lunga la sua trafila linguistica, è certamente ancora più lunga la lista di siti internet che a Pisa e provincia mettono in vetrina questo tipo di prodotto. Cercando infatti su Google le parole “escort Pisa”, otteniamo in 0,05 secondi circa 118.000 risultati in lingua italiana. Quantità notevole, se proporzionata al corrispettivo simmetrico, ovvero “gigolò Pisa”, che ottiene in più del doppio del tempo (0,12 secondi) meno di un centesimo degli indirizzi, cioè solo – si fa per dire – 1.730 risultati.

Naturalmente sarebbe un grave errore considerare tutti questi risultati come vetrine di escort e gigolò, ma l’enorme quantità di siti italiani che riportano queste parole è rappresentativo del loro uso. Salta all’occhio anche la sproporzione tra la ricerca di escort e gigolò.

Infatti, analizzando il servizio Google AdWords, che permette di inserire degli annunci a pagamento su Google, la stringa “gigolò Pisa” non verrebbe cercata nemmeno una volta al mese e sarebbe pertanto valutata a click solo 0,05 €, mentre la stringa “escort Pisa” verrebbe cercata circa 5.400 volte al mese, facendo lievitare il costo per click (CPC) a 0,10 €. Cifra che – con buona pace dell’aeroporto – non raggiunge nemmeno la stringa “aereo Pisa”, cercata solo 1.000 volte al mese e con costo per click valutato a 0,05 €.

Insomma, che un via vai di escort non avvenisse solamente ad Arcore era un fatto certo, ma che una larga parte degli internauti nella provincia di Pisa preferisse altro al viaggiare non l’avrebbe scoperto nessun sondaggio.

Enrico Santus

Assemblea intersindacale per commissione statuto elettiva UNIPI

Si è tenuta martedì mattina l’Assemblea intersindacale per discutere la composizione della commissione statuto, che dovrà riorganizzare nei prossimi sei/nove mesi l’Università di Pisa in conformità a quanto imposto dalla legge Gelmini.

Durante l’assemblea è stata esaminata la lettera inviata lunedì scorso dal rettore Massimo Augello, nella quale venivano delineate le linee guida da seguire. Linee guida, peraltro, ampiamente contestate durante l’assemblea stessa, in quanto renderebbero «poco trasparente e autoreferenziale la designazione dei membri nella seduta congiunta di Senato Accademico e CdA del 9 febbraio».

Pur riconoscendo la necessità di insediare quanto prima la commissione – onde evitare che le modifiche statutarie vengano lasciate ai commissari inviati dal Ministero – nel documento approvato dalla seduta si sostiene l’impossibilità di «escludere i precari della ricerca dalla Commissione» e si richiede l’indizione quanto prima di «elezioni dirette, finalizzate a determinare la composizione dell'organo in maniera democratica». Viene poi sollevato un altro punto, che tuttavia era già stato preso in considerazione dalla lettera del rettore, ovvero l’apertura a «un continuo confronto con l'esterno attraverso molteplici momenti pubblici per garantire la possibilità che tutto il mondo accademico possa partecipare alla riscrittura delle regole di base».

L’assemblea ha infine richiesto che il rettore faccia domanda al Ministero di inserire l’ateneo di Pisa nella sperimentazione prevista dall’articolo 1, comma 2 della legge 240/2010, nella quale si prevede che le Università “virtuose”, che hanno conseguito stabilità e sostenibilità del bilancio, nonché risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca, possano sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi diversi da quelli previsti per gli altri atenei.

Enrico Santus