In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

mercoledì 25 gennaio 2012

I miei occhi, il tuo sguardo -> Hong Kong (3)

[Previous part at http://www.facebook.com/note.php?note_id=10150491399752947]

Piacere, mi chiamo Shěn Lì Gōng, ho 25 anni e le mani screpolate.

Spesso, riemergendo da un pensiero contorto, mi scopro ad accarezzarle, esaminarle. La sensazione, in un primo momento, è che non mi appartengano, che siano altro rispetto a quei piccoli palmi rosei e paffuti con cui ero solito giocare. Eccole invece adesso, col dorso coperto da una rada peluria nera sotto la quale affiorano delle vene celesti, che pian piano si immergono per scomparire completamente tra le nocche.

Le sfioro. Sembrano le mani di mio padre. Le mani a cui davo la mano quando ero bambino.

Piacere, mi chiamo Shěn Lì Gōng, e ancora una volta non ho scelto il mio nome. Mi è stato assegnato durante un corso di mandarino e solo più tardi ne ho scoperto il significato: “fare un’azione di merito, dare un contributo”. Chissà, se il suo significato è vero quanto quello di Enrico (“Potente in patria”), allora posso stare sereno. E, sopratutto, potete esserlo voi.

***

«L’appuntamento sarebbe dovuto essere qui un quarto d’ora fa», mi dico osservando l’orologio. In quell’istante, una mano mi afferra la spalla. Mi volto: «Gustavo! Eccoti, come stai?».

«Bene, bene... Sapevo che saresti arrivato in ritardo, così sono andato a prenotare un tavolo in quel locale!», mi risponde indicando una vetrina dalla parte opposta della strada. «Com’è il nuovo appartamento?».

«Piccolo, ma si sta bene... I coinquilini sembrano in gamba e alla fine riesco a mettere da parte qualche soldino per le uscite. Il tuo?».

«Abitabile!», ride. «Di certo, se voglio passare una notte con una ragazza la porto in albergo, non in quel buco!».

Non appena apriamo la porta del locale, un campanellino suona, attirando l’attenzione di un cameriere che ci raggiunge e ci indica un tavolo tondo, in marmo, al cui centro c’è un piatto – anch’esso in marmo – che rotea. «Oggi facciamo un dim sum, una cosa tipica di questa zona!».

«Ah, d’accordo. Ho già avuto modo di provarlo, è ottimo... Hai trovato lavoro?».

«Ho alcuni contatti: la settimana prossima devo fare dei colloqui e poi vediamo che mi dicono... Sai come è nato il dim sum?».

«No, come?», mento. Ho capito che vuole fregiarsi di questa conoscenza, per cui lo assecondo.

«Praticamente, il dim sum è una sorta di brunch tipico della Cina cantonese». Esita un attimo. «Lungo la via della seta c’erano molte case che offrivano del tè ai viaggiatori e in un secondo momento hanno iniziato ad abbinarci anche degli spuntini, solitamente cotti al vapore e serviti dentro cestini di legno».

«Ah, ecco! Interessante...», commento sforzandomi di apparire incuriosito.

«Oggi – riprende il discorso con aria saccente – il dim sum, più che un pasto, è diventato una sorta di rituale: le famiglie cinesi lo consumano nei giorni di festa e gli anziani lo prendono dopo gli esercizi mattutini, insieme ai loro nipoti o commentando i giornali con gli amici».

Sorrido. Per un attimo mi sembra di aver letto le medesime informazioni sulla mia guida turistica, ma fingo che esse mi suonino nuove. Fortunatamente in quel momento interviene il cameriere, che ci porge due teiere, una con tè e l’altra con acqua bollente.

«Guarda – mi dice Gustavo, afferrando la mia ciottola e versandoci dentro l’acqua bollente –, i cantonesi usano quest’acqua per pulire le bacchette prima di mangiare. Le puoi infilare nuovamente ogni volta che vuoi pulirle, se non vuoi mischiare i sapori!».

«Si vede che sei stato qui a lungo!», scherzo, nel disperato tentativo di cambiare discorso.

Alcuni secondi più tardi, finalmente ci riesco.

***

Dice di chiamarsi Naomi, ma credo che sia piuttosto un nome – per così dire – “d’arte”. L’ho incontrata l’altra sera mentre tornavo a casa dopo qualche bevuta con gli amici. «Hey Darlin, where are you goin?», mi ha detto, nasalizzando ogni suono. È nera, alta un metro e ottanta, due seni eccessivamente grandi e una pancia troppo pronunciata. Mi sono avvicinato, volevo parlarle, capire chi controlla la prostituzione qui.

«I’m going back home, darling», le ho risposto. «You back home? Come on, let’s go to enjoy my big tits», mi ha interrotto, forzando un sorriso che avrebbe voluto coinvolgermi. Poi ha preso il cellulare e ha scritto in un messaggio: «1000 $ HKD», 100 euro. L’ho guardata e ho sorriso scuotendo la testa.

La prostituzione a Hong Kong è la normalità: nei locali è quasi sempre possibile notare qualche ragazza in disparte che beve e dona sorrisi a tutti gli uomini con cui incrocia lo sguardo. Generalmente si tratta di ragazze filippine, mentre le nere – specialmente se non sono particolarmente belle – non hanno la possibilità di vendersi dentro i locali e sono obbligate a rimanere sulla strada, sul marciapiede.

«It’s too much», le ho detto per vedere fino a dove poteva arrivare. Qualche secondo più tardi sul suo cellulare c’era scritto «200 $ HKD», 20 euro.

«Where are you from, Naomi?». «I’m from Congo. Is it ok 200 $ HKD?», ha insistito. «Why do you do this job?», le ho chiesto, evitando ancora una volta la sua domanda. «I have to survive, baby!». Rideva nervosamente. Ho stretto i denti per nascondere la compassione che avrebbe voluto esprimere il mio volto: «Do you have any boss or you are a kind of self-employed?». «Yes, there’s somebody in the opposite walkside», mi ha risposto. E i suoi occhi sono diventati lucidi.

In quel momento ho notato due uomini indiani che ci osservavano dall’altro marciapiede. Entrambi portavano un giubotto in pelle e guardavano dritti nella nostra direzione. Naomi era diventata particolarmente nervosa: sbuffava e sbatteva ripetutamente il pugno sull’anca. D’un tratto, mi ha preso per mano e mi ha portato qualche passo più in là, dove alcune sue colleghe stavano sedute su uno scalino a mangiare delle patatine. Si sono dette qualcosa nella loro lingua e poi hanno riso tutte insieme. In quella posizione, i due indiani col giubotto in pelle non potevano vederci. Ho guardato Naomi ancora una volta, ho pensato alle sue risate tanto forzate quanto incapaci di raggiungermi, e l’ho salutata. I suoi occhi mi sono rimasti incollati alla schiena finché non ho girato il vicolo.

Quella sera ho percorso la strada più lunga per tornare a casa, attento che nessuno mi seguisse.

***

I cinesi hanno due nomi. Almeno quelli che lavorano in un contesto internazionale o che, comunque, si trovano a doversi interfacciare con persone di lingue diverse. Il secondo “battesimo” avviene solitamente in età infantile o adolescenziale, quando iniziano i primi contatti con persone di diversa cultura.

Ad assegnare i nomi – per lo più bisillabi – sono spesso gli insegnanti di lingua, ma capita anche che i ragazzi scelgano da sé come chiamarsi.

Se l’assonanza col primo nome è uno dei criteri principali nella scelta, spesso possiedono un ruolo altrettanto importante il gusto e la somiglianza col nome di personaggi famosi o di elementi della cultura cinese. Un ulteriore criterio, infine, è la traduzione letterale di parole che richiamano, nella cultura cinese, referenti importanti.

Questi criteri di scelta, vista spesso l’ignoranza della cultura occidentale, portano a realizzazioni di veri e propri obbrobri: si racconta sul web dell’esistenza di numerosi Milk, Tiger, Rabbit, Hero, King, Champion, etc., per non parlare del povero Broccoli, che aveva scelto questo nome perché gli suonava propriamente italiano.

Sembra, a leggere il web, che molti studenti con nomi buffi abbiano studiato proprio le lingue da cui deriva il loro secondo nome. Che non sia stato qualche professore eccessivamente spiritoso ad assegnarglielo? Mah! Di certo c’è che col secondo nome molte persone assumono anche una seconda identità, che in fondo è quella lavorativa o accademica e che si distingue nettamente dalla prima identità, utilizzata solo in un contesto domestico-familiare. Chissà come se la cava Broccoli tra scuola e lavoro!

***

Esco da Sham Shui Po Station. Sono ancora una volta in ritardo. Mi guardo intorno, muovendomi a zig zag nel marciapiede. Devo trovare il 303. Evito le occhiate della gente; osservo la mappa; cerco un punto di riferimento; guardo l’orologio; faccio qualche passo. Eccolo!

«You are late!», mi dice l’impiegato dietro il vetro mentre solleva lentamente gli occhi dalla pratica. «Yes, sorry...», rispondo col fiatone.

Due minuti più tardi sono nella sala d’attesa insieme ad una trentina di persone. L’ufficio immigrazione è pieno di volti stanchi. Guardo il ragazzo nero seduto accanto a me; ha le cuffie nelle orecchie e fissa il monitor coi numeri. Per un attimo lo osservo e mi rattristo al pensiero di ciò che significa “centro immigrazione” e di tutte le altre parole che a questo potrebbero essere collegate: confini, frontiere, dogane... I numeri scorrono rapidi nel monitor. Io tengo d’occhio il mio biglietto e una ragazza che, qualche metro più in là, rimprovera un bambino che stringe un modellino di automobile e non sembra dar troppo peso alla ramanzina. D’un tratto, infatti, rotea su se stesso e schizza via come una palla da biliardo, accompagnando quel movimento con un fruscio che vorrebbe riprodurre il motore dell’automobile gialla.

«Please, come with me!». Un impiegato cinese di mezza età mi invita a seguirlo; ha modi gentili: mi fa notare un errore sul modulo e mi spiega come correggerlo; poi mi invita a lasciare le impronte digitali e a farmi scattare una fotografia. Il flash mi abbaglia, lui ride. «Please, wait there!», mi dice, indicando un’altra sala d’attesa.

Inganno il tempo leggendo le locandine sul muro: in una di esse è rappresentato con colori pastello il porto di Hong Kong. Riconosco alcuni grattacieli che sono solito andare a vedere. Sulla destra della locandina, però, tutto diventa nero, come se un bambino l’avesse pasticciata. Alzo appena gli occhi e leggo: «Corruption writes everything off». Il pensiero corre al mio paese.

Un uomo in divisa mi chiama. È serio: controlla ancora una volta il passaporto; confronta la foto con il mio viso; firma alcuni documenti. Mi scruta ancora un istante e poi mi consegna l’Hong Kong Id Card: «Welcome in Hong Kong, mr. Santus!».

***

I ragazzi sono in gamba. Ridono e scherzano. A vederli di notte, nessuno ci investirebbe una lira, invece sono manager di aziende europee che concludono ogni giorno affari per migliaia e migliaia di euro.

Si incontrano in un bar a quattro passi da casa mia e trascorrono la serata a raccontarsi storie, viaggi e a prendersi in giro. Intanto, ingurgitano birre e whisky, oltre che liquori tipici cinesi di cui ancora non conosco il nome. Questo locale, Mes Amis, per loro è una casa è un luogo dove poter condividere esperienze e apprenderne di nuove. Il proprietario del Mes Amis sta ben attento che si trovino bene: spesso si unisce a loro e offre un giro, partecipando naturalmente alla bevuta.

La prima volta che li ho incontrati, gli amici del Mes Amis festeggiavano un compleanno e – come da rito – hanno obbligato il festeggiato a scolare un Flamming Lamborghini, i cui principali ingredienti sono la Sambuca, la Kahlua, il Baileys e il Curaçao, nonché – naturalmente – le calde fiamme. Ero curioso di vedere la preparazione del cocktail quando ho notato che i bicchieri sul bancone erano diventati due. «This is your welcome day in Mes Amis!», mi ha detto uno di loro dandomi una pacca sulla schiena.

In quel momento ho capito che il “welcome day” prevedeva anche il rito d’ingresso nel gruppo. E quale miglior rito se non una bevuta di alcohol e fuoco? Un istante più tardi ero accanto al festeggiato a bestemmiare con una cannuccia in bocca e dietro altre sette o otto persone con le loro macchine fotografiche accese. Davanti a noi il barman e due bicchieri pieni. Sopra ogni bicchiere veniva poggiata una bottiglia, lungo il cui vetro scivolava un liquido infuocato che – una volta raggiunto il bicchiere – sviluppava un forte calore. Proprio in quel momento bisognava succhiare attraverso la cannuccia tutto il contenuto del bicchiere. Qui si chiudono i miei ricordi.

***

Uno dei ragazzi del Mes Amis è un poliziotto. Prima che il Famming Lamborghini mi mettesse ko, gli ho chiesto come mai i suoi colleghi scrivessero così tanto e lui mi ha spiegato che gli spetta scrivere relazioni su ogni operazione che fanno: c’è chi lo fa in ufficio e chi invece lo fa in strada. Col suo inglese poco chiaro, però, non ha saputo dirmi su quale tipo di operazioni devono presentare relazione: solo su eventuali reati o anche sul controllo dell’ordine?

***

È successo. Succede ogni giorno. Prima o poi tutto cambierà senza che nessuno se ne sia reso conto: il capitalismo penetra nella società cinese attraverso spot, esibizioni, barzellette e – persino – divieti. La strategia funziona, il feedback è ottimo. Una rivoluzione silenziosa, certo, eppure decisiva per il pianeta: non solo per gli equilibri economico-politici, ma anche per quelli ambientali e culturali.

Lo scorso 13 gennaio, a Pechino – una delle ultime capitali del comunismo – la gente è letteralmente impazzita per l’Iphone 4S – grande emblema del capitalismo occidentale – tanto da obbligare le autorità a sospenderne le vendite.

Negli stessi giorni, a Hong Kong – centro finanziario, ma anche importante ponte comunicativo per la Cina – è accaduta una cosa ancora più insolita: a seguito del divieto imposto da Dolce & Gabbana di fotografare la vetrina del proprio negozio, centinaia di persone sono scese in piazza con cartelli e striscioni (e altre migliaia si sono unite su Facebook) per contestare la decisione. Fanatici di moda, potrebbe supporre qualcuno. Certo. Peccato, però, che nel Chinese New Year's flower market, frequentato ogni anno da centinaia di migliaia di persone, molti stand facevano riferimento alla contestazione (come ad esempio nella deformazione in “Dragon & Great year”). Prova del fatto che la questione è penetrata nell’immaginario di Hong Kong. E non solo.

Insomma, il capitalismo seduce la Cina. E i cinesi ne rimangono infatuati.

***

Le dita di Sanny avvolgono delicatamente la tazza col cappuccino fumante. «Do you like it?», le chiedo puntando il cappuccino, sulla cui schiuma un barman ha disegnato impropriamente un cuore. Oggi ho deciso di invitarla all’Illy Café di Mody road per la prima lezione di cinese.

Lei, nonostante sia coreana, insegna il mandarino ai bambini ed ha toni e modi molto rilassati. Mi guarda e mi chiede da dove voglia partire. «Let’s start with “ciao, hello”, naturally!», dico calandomi nello stereotipo dell’italiano. «Nǐ hăo!», mi dice sorridendo. «Nǐ che?», dico io in italiano.

Il barman, un ragazzo cinese con degli occhiali troppo grandi per il suo viso, scoppia a ridere. Si diverte a guardare come gesticolo e ogni volta che vengo in questo locale balbetta qualche parola nella mia lingua. Prima o poi gli proporrò di andare a prendere una birra, cosicché possa veramente praticare l’italiano.

«Nǐǐǐ - hăăăo!», scandisce Sanny. Il mandarino – diversamente dal cantonese (tipico di Hong Kong) – ha quattro toni, che hanno per i cinesi lo stesso ruolo che per noi ha l’accento. Riconoscerli non è facile, visto che il nostro orecchio non è abituato. Riprodurli tantomeno. «Niiii haaaaaaao!», dico senza usare alcun tono. Sanny mi guarda perplessa per qualche secondo, poi – con un po’ di clemenza – mi dice: «Good, try it again: Nǐǐǐ - hăăăo!». « Nǐǐǐ - hăăăo!», ripeto io. Scoppia l’applauso. Tutto il bar si blocca un istante e si volta a guardarci. Sanny arrossisce e abbassa il capo. Io li guardo e – consapevole che chi sta lì dentro è attratto dal fascino italiano – parto con una serie di: «Nǐǐǐ - hăăăo! Nǐǐǐ - hăăăo! Nǐǐǐ - hăăăo!».

Il barman mi guarda da dietro il bancone e mi fa un’occhiolino. Ho conquistato il palco.

***

La lezione con Sanny è finita un’oretta dopo. Ho imparato a dire “ciao”, “mi piace”, “amico”, “salute” e sopratutto tante parolacce. Sanny, dal canto suo, ha imparato i corrispettivi italiani. Ad ogni modo, al momento della scrittura di questo articolo ho già dimenticato tutto e sono costretto a riprendere in mano l’agenda per ricordare le parole. Il fatto di non riuscire a riprodurre gli accenti, poi, mi ha costretto a registrare la voce di Sanny che legge in ordine i vari termini, seguita poi dalla mia lettura scorretta.

Dopo la lezione abbiamo camminato un po’ verso il porto e abbiamo parlato della diversità delle nostre culture: secondo lei, gli italiani si sanno divertire; secondo me, i cinesi sono dei gran lavoratori. Alla fine ci siamo trovati entrambi a ridere per quel che credevamo l’uno dell’altro.

Quando ci siamo salutati, mi sono avvicinato per darle due baci sulle guance, ma lei si è irrigidita: in Italia, le ho spiegato, tra amici si usa dare due baci sulle guance. Lei ha sgranato gli occhi e ha scosso la testa freneticamente. Poi ha sorriso ed è andata via.

***

Si spengono le luci. I fotografi sono appostati davanti alla passerella, gli spettatori, invece, stanno sui fianchi. Eccomi al mio primo fashion show, la prima sfilata di moda a cui abbia mai assistito. Sono seduto in terza fila, proprio dietro i VIP, sorpreso dalla musica e sconvolto dalle ragazze che mi sfilano davanti con abiti che ne esaltano la bellezza. Gambe lunghissime, fisico gracile e sguardo sicuro: i loro passi sono perfettamente coordinati al ritmo della musica e così lo sono le luci che si accendono e si spengono proprio sopra di me.

Avevo sempre evitato questo spettacolo, non ritenendolo capace di suscitare emozioni. Mi sbagliavo: odori, profumi, luci, suoni, attese, silenzi. Tutto contribuisce a calarti in un’atmosfera altra. Unica. Diversa.

Kelly accanto a me scatta fotografie e mi indica particolari che – da inesperto – non potrei notare: le ragazze sono sempre le stesse; dodici. Entrano in scena, sfilano e poi escono per pochi istanti, pronte a rientrare immediatamente con abiti differenti e pettinature che le rendono irriconoscibili.

Si accende la luce. «Chissà quante bambine hanno sognato di diventare modelle?», mi chiedo, mentre la stilista si affaccia per ringraziare il pubblico. Dietro di lei eccole di nuovo, esili ed eleganti come farfalle che nascondono sotto il trucco sacrifici, rinunce, cedimenti e compromessi. «Forse tante quanti sono i bambini che sperano un giorno di diventare scrittori». «Il problema qui – mi dico – sta nella differenza tra la speranza e l’esigenza». Si spengono le luci. Lo show è terminato.

[To be continued...]

Nessun commento:

Posta un commento