In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

lunedì 9 gennaio 2012

I miei occhi, il tuo sguardo -> Hong Kong (1)

Tanta gente, ancora oggi, non ha la possibilità di affrontare viaggi, specialmente se questi richiedono grandi somme di denaro o lunghi lassi di tempo. La maggior parte delle persone deve accontentarsi di scoprire il mondo attraverso lo schermo della televisione o attraverso libri che - troppe volte - non raccontano i luoghi, ma li descrivono. Ecco, questo è ciò che non voglio fare. Desidero invece con queste note raccontarvi Hong Kong (e l’Asia) in tutti quegli aspetti che nessuna guida riuscirà mai a cogliere (né potrebbe farlo, vista la rigidità della forma testuale a cui è soggetta).

Quello asiatico è un orizzonte che via via si sta facendo sempre più vicino all’Europa e all’Italia, evidenziando così l’impreparazione non solo dei singoli cittadini, ma anche di coloro che questo avvicinamento dovrebbero regolamentarlo e gestirlo. Il modello di sviluppo asiatico (in particolare cinese), da qualche tempo, si è affacciato nell’economia mondiale in piena competizione con quello occidentale (in particolare americano), provocando fobie e perversioni finanziarie di cui non è atto conoscere le conseguenze. Ad ogni modo, entrambi i modelli economici – pur in maniera differente – poggiano ancora su contraddizioni e gravi storture, prescindendo spesso dai più fondamentali diritti umani e dal rispetto ambientale.

Oggi più che mai, quindi, è diventato importante aprire un occhio sull’Asia, ma non un occhio scientifico che ci riporti semplicemente dati sterili, bensì un occhio che racconti la cultura di queste popolazioni, il loro modo di vivere e di pensare. È per questo motivo che, in questo reportage di frammenti più o meno diari, voglio portarvi con me nelle strade, nelle case, nelle università, nei luoghi di lavoro; voglio farvi parlare con la gente, farvi conoscere i loro gesti, i loro mestieri, le loro religioni, le loro abitudini; voglio farvi scoprire come concettualizzano lo spazio, il tempo, la vita.

Il mio – lo ribadisco – non vuole essere uno studio oggettivo, rigoroso: attraverso esperienze, riflessioni e analisi su più livelli (storico, economico, politico, culturale) cercherò piuttosto di tenere sempre uno sguardo umano: i miei occhi, il tuo sguardo.

(Enrico Santus)

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I primi passi non sono stati semplici: le dodici ore trascorse in quella mezza poltrona di un Boeing avevano intorpidito i miei arti inferiori. I muscoli erano ridotti né più né meno come quando ci raggiunge la febbre e ci costringe a rimanere coricati per ore, a osservare lancette che appaiono immobili.

Nella mente e nelle scarpe, però, c’era troppa curiosità. Mi sono alzato ed ho seguito le indicazioni verso l’aeroporto. Erano le 14.45 circa. Ora locale, naturalmente. Erano passate ormai venticinque ore dalla mia partenza da Cagliari, alle quali si sommavano 7 ore di fuso orario.

Quando i miei piedi hanno finalmente poggiato sulla terra non ho pensato di essere giunto in un altro continente. Piuttosto, sono stato avvolto da un senso di sollievo non troppo diverso da quello che deve cogliere i maratoneti che superano il traguardo e sanno che finalmente è giunto il momento per riposarsi.

Solo più tardi, quando sui muri sono apparsi cartelloni pubblicitari con illeggibili scritte cinesi, ho realizzato di essere finalmente in Asia, a Hong Kong. Nelle vene ha iniziato a scorrere uno sprizzo d’energia miscelato ad una moderata eccitazione: ho sorriso. In tutta la mia vita non avevo mai preso in considerazione la possibilità di recarmi in questa parte del mondo e adesso mi sembrava così fondamentale esserci.

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Tre ore dopo ero arrivato a Nathan road, una strada molto trafficata nel quartiere di Tsim Sha Tsui (non ho ancora imparato a pronunciare il nome del mio quartiere!). Col mio aspetto esotico, non ho impiegato molto tempo ad attrarre uomini di ogni età e ogni dove che si proponevano di vendermi a prezzi scontati qualsiasi tipologia di merce se li avessi seguiti. Nonostante il mio garbato rifiuto, quegli uomini sembravano moltiplicarsi, insistendo fino a quando non ho raggiunto l’ascensore della palazzina in cui si trova il mio ostello.

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L’ascensore è affollato, forse anche oltre la sua capacità. Terzo piano. Appena si aprono le porte sono fuori. Mi duole il piede: qualcuno me l’ha schiacciato durante la salita. Dopo un brevissimo corridoio sono accolto da una decina di lenzuola stese vicino ad una parete, appena qualche centimetro sopra rifiuti metallici.

«Good afternoon, my name is Enrico Santus: I have to check-in», cerco di scandire alla donna che mi osserva da dietro un vetro. «Check-in?», mi domanda, porgendomi un foglio dove sono elencati i nomi degli ospiti del giorno. «This one, I’m this one», le indico sul foglio.

Stanza numero 14; inserisco le chiavi nella toppa e apro. Un secondo dopo sono dentro una camera di tre metri quadri, con un letto a castello più corto di me e le pareti aderenti alla struttura del letto stesso. Poggio le valigie e cerco di coricarmi: subito mi rendo conto che non posso distendermi, ma che devo obbligatoriamente piegare le ginocchia. Il materasso sotto di me è in paglia pressata. Bestemmio.

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Le strade di Tsim Sha Tsui sono affollate: il 95% delle persone che incrocio sono asiatiche. Hanno un brutto vizio: non cercano in alcun modo di evitarti se ti incrociano, cosicché lo scontro diventa inevitabile. Eppure, molti di loro hanno una corporatura addirittura più esile della mia. Non capisco i motivi di questo comportamento: se non avessi la certezza del contrario, azzarderei che sono privi di visione periferica.

La prima volta che mi è capitato di scontarmi, mi sono voltato innervosito. Quando ero ragazzino, nella mia piccola città iglesiente, lo spalla-a-spalla costituiva la più grave mancanza di rispetto che si potesse subire. Il principio dello spalla-a-spalla assomigliava molto a quello del “togliere il saluto” e del “far finta che non esista”, meno che per la sua forza simbolica: mentre negli altri due casi si ignorava la persona (cosa in qualche modo accettabile), nello spalla-a-spalla la si cancellava fisicamente. Laddove si poteva sorvolare la mancanza di un saluto, non si poteva certamente accettare la cancellazione del proprio fisico; così a questo genere di abuso dovevano seguire categoricamente i cazzotti, utili a riconquistare il diritto ad uno spazio, ad un peso, ad un corpo inviolabile.

È chiaro, quindi, il motivo della mia irritazione quando il primo cinese mi si è schiantato addosso. In pochi istanti, tuttavia, essa è svanita: non appena mi sono voltato, mentre lanciavo imprecazioni contro quello che consideravo una specie di aggressore, altri fantomatici aggressori mi hanno colpito una, due, tre, cinque, dieci volte. La maggior parte erano più esili di me e si allontanavano sereni, come niente fosse stato.

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Le strade sono sempre affollate. Mi dico che quello in cui mi trovo deve essere il quartiere dei negozi, perché ad ogni passo vedo una nuova vetrina. Presto scoprirò, invece, che non è così.

Sette milioni di abitanti. Hong Kong si sviluppa in altezza, poggiando le sue fondamenta sul commercio e sulla ristorazione. I piani bassi dei grattacieli hongkonghesi sono destinati a ospitare negozi, bar, tavole calde e locali di altro genere. La maggior parte dei cittadini vive in appartamenti agli ultimi piani dei palazzi o dei grattacieli e raggiunge le proprie case attraverso ascensori a cui si accede sotto l’attenzione di una guardia non armata.

Dicono che il territorio sia ricco di aree verdi, parchi e riserve naturali. Dicono che queste costituiscono il 60% del totale del territorio. Io non ho ancora avuto modo di vederle, ma saranno certo una delle prossime mete del mio pellegrinaggio in questa città. Come lo saranno i mercati, nei quali – dicono – bisogna lasciare ogni speranza di umanità prima di entrare: animali di ogni sorta vengono uccisi e macellati davanti al cliente, che coi suoi soldi ed il suo indice diventa contemporaneamente acquirente e boia. Insomma, un sistema crudo, ma forse meno ipocrita dei macelli industriali e del successivo packaging occidentale.

I primi coloni inglesi giunti in questo “porto profumato” (questo significa Hong Kong), lo hanno chiamato anche Terra dei grandi pesci, per l’enorme quantità di pesci presente nella penisola. Non appena avrò il tempo, andrò a vedere i pescherecci e conoscere qualche pescatore, per farmi raccontare le loro storie.

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La prima notte non ho chiuso occhio. Non so se fosse più l’eccitazione del diverso o i dolori provocati dalla durezza del materasso. Di certo non mi hanno aiutato le voci fuori dalla porta: qualcuno ha passato metà della notte a parlare di qualcosa che non ho minimamente afferrato.

La mattina, quando sono uscito dal bagno, sono stato preso per il bavero da un francese di oltre un metro e novanta: «What are you fucking doing in my toilette?», mi ha domandato. Dietro di lui stava una ragazza mingherlina, dai tratti filippini. «Is that your toilette?!», ho chiesto con un sorriso beffardo. Poco più tardi stavamo bestemmiando insieme per le condizioni in cui ci costringevano a stare lì dentro. «In Europe this place would be illegal», ci siamo detti, quasi ciò potesse consolarci.

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La donna delle pulizie è stupida. Non è un’attribuzione che le faccio io, piuttosto è una costatazione. Mentre discutevo col francese (il quale ha successivamente diretto la sua rabbia sulla receptionist), la donna delle pulizie rideva come una iena. Probabilmente non c’era cattiveria in quella risata; probabilmente non capisce l’inglese; probabilmente si trattava semplicemente di impaccio, ma lo stesso fatto di non sapersi trattenere la rendeva così ridicola da togliere ogni dubbio sulla sua scarsa intelligenza.

Altri indizi sono il fatto che non parla mai con nessuno, nemmeno con gli stessi gestori dell’ostello; si muove in modo leggermente scattoso; cammina sempre a testa bassa; non fa nient’altro se non pulire, con stracci logorati e detersivi privi di qualsiasi fragranza.

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Può essere interessante fare un piccolo zoom sulla discussione tra il francese e la receptionist cinese. Il primo chiedeva uno sconto per le pessime condizioni dell’ostello, mentre la seconda negava che l’ostello fosse in condizioni inacettabili (le quali invece, assicuro, sussistevano tutte).

Ad un tratto, la donna ha accennato un passo, come per andarsene, e il francese le ha poggiato una mano sulla spalla per bloccarla. Il gesto del francese – nonostante lo scopo – era chiaramente dimostrativo: non aveva applicato nessuna forza e se la donna avesse voluto passare l’avrebbe fatto tranquillamente. Tuttavia, la receptionist deve aver percepito quel gesto come un atto irrispettoso, tanto che immediatamente ha schiaffeggiato la mano, accompagnando quell’azione con uno sguardo di disprezzo ed un lungo silenzio. Sono dovuti passare alcuni interminabili istanti prima che quella situazione si sbloccasse.

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Avenue of Stars, il corrispettivo cinese dell’Hollywood Walk of Fame. È qui che celebrerò l’arrivo del 2012, sopra il marmo sul quale sono impresse le impronte delle mani delle grandi celebrità del cinema di Hong Kong.

Tipico luogo d’incontro – specie per gli occidentali – è la statua di Bruce Lee, scolpito con la sua muscolatura agile e leggera mentre pratica le arti marziali proprio dinanzi al mare che ci separa da Hong Kong Island.

Dall’altra parte dello specchio d’acqua ci sono i grattacieli di Wan Chai, illuminati da una sinfonia di luci per questa occasione. Nella facciata di uno di essi è raffigurato il dragone e, forse, non a caso: il 2012, infatti, sarà per l’oroscopo cinese proprio l’anno del dragone. Ad ogni modo, i festeggiamenti per il nuovo anno cinese inizieranno il 23 gennaio, mentre oggi si festeggia il capodanno occidentale con alcuni fuochi d’artificio che partiranno proprio dalle cime di quelle modernissime strutture architettoniche.

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Ho preso l’influenza: naso tappato, tosse, dolori muscolari. Ma non posso fermarmi. Devo trovare assolutamente una camera il prima possibile. Ho prenotato l’ostello per otto notti, dopo di che sarò per strada. E non me lo posso permettere.

Intanto, questa mattina sono stato al Polytechnic University of Hong Kong, l’ateneo che mi ospiterà per i prossimi sei mesi e che mi offrirà lezioni di corpus linguistics, communication e management (oltre che – naturalmente – di cinese, sia mandarino che cantonese).

L’organizzazione dell’ateneo è chiaramente nello stile anglosassone: la struttura è enorme, ricca di servizi di ogni genere (dalla libreria alla sala audio/video, dall’aula computer alle aule di musica), ai quali puoi accedere solo ed esclusivamente dopo aver ottenuto la tua tessera magnetica. Tutto è ordinato, le procedure sono molto chiare, ma non possono assolutamente essere mescolate. Pena: il crash dei burocrati, che funzionano più o meno come automi e nel caso in cui qualcosa non va esattamente come si aspettavano entrano nel pallone, cancellano l’intera procedura e la fanno ripartire dall’inizio.

Nonostante sia evidente l’eredità anglosassone, nel cortile del Polytechnic si erge una grande bandiera della Repubblica Popolare Cinese, quasi a rimarcare – ancora una volta – come questa terra sia nuovamente patrimonio della grande potenza asiatica, che dal 1° luglio 1997 l’ha sottratta all’impero britannico.

[To be continued...]




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