In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

mercoledì 11 gennaio 2012

I miei occhi, il tuo sguardo -> Hong Kong (2)

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Non so se sia stato il rumore della porta o qualcos’altro, fatto sta che la donna delle pulizie ha sussultato non appena sono uscito dalla stanza. La testa china come sempre, ha fatto un giro su se stessa e poi si è rinchiusa nella toilette che si trova a pochi passi dal mio uscio. Sono rimasto perplesso: ho atteso qualche istante lì davanti per capire se l’avessi fatta spaventare io, poi mi sono allontanato per riapparire qualche secondo più tardi, giusto per dare un’ultima occhiata. La porta del bagno era aperta, dentro non c’era nessuno.


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«That’s the room!». Candy ha circa 25 anni ma la corporatura di una bambina. I suoi piedi potrebbero agevolmente entrare dentro due Lelly Kelly. Mi osserva con attenzione per cercare di capire cosa mi stia frullando in testa.

«Wow, it’s too small!», esclamo non appena vedo oltre la sua piccola figura. «Really? Is it too small?», mi domanda lei con un’espressione sorpresa. La stanza è un corridoio largo poco più di un metro e profondo al massimo tre. Due terzi del corridoio sono occupati da un letto singolo e il restante terzo da una minuscola libreria.

Candy è delusa, fa qualche passo e crolla sopra il divanetto che si trova in salotto. Osserva una lista dove sono riportati degli indirizzi e i corrispettivi prezzi. «Is it ok 5.600 $ HKD for you?», mi domanda alzando lo sguardo. «No, I’ve already told you, my budget is 4.000 $ HKD», ribatto. Prende il cellulare e chiama qualcuno. Parla in Cantonese: è molto più disinvolta di quando usa l’inglese per contrattare con me. «I can make a discount for you», mi dice.

Ho trovato la mia camera, un corridoio di tre metri quadrati al sedicesimo piano di un grattacielo di Tsim sha Tsui Mansion.


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C’è molta polizia qui, moltissimi poliziotti. Si appostano negli angoli delle strade e osservano la gente, scrivendo qualcosa su taccuini. La prima volta che li ho visti ho pensato che stessero facendo qualche multa, ma il fatto che li veda sempre scrivere mi ha dissuaso dal continuare a crederlo. Sospetto che tengano d’occhio qualcosa o qualcuno e ne registrino ogni passo: altrimenti non riesco a spiegarmi come mai stiano sempre scrivendo. Sembrano amanuensi piuttosto che agenti delle forze dell’ordine.


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La metropolitana di Hong Kong è un gioiello. Aperta nel 1979, oggi conta circa 220 km di binari e oltre 150 stazioni. Ci si accede passando una tessera magnetica sopra i corrispettivi lettori. Questa carta, chiamata Octopus card, equivale esattamente alla londinese Oyster card, meno per il fatto che con essa ci si può anche pagare la spesa. Il costo dei viaggi è veramente basso, specie se la si paragona all’Underground londinese. Già dal nome, Mass Transit Railway (MTR), si capisce benissimo quale sia lo scopo di questo importante mezzo di trasporto.

Altri mezzi molto economici e molto utilizzati sono gli autobus, che poco differiscono da quelli londinesi. Come quelli, hanno due piani e sono spesso guidati da autisti scontrosi.

Ai black cabs londinesi Hong Kong risponde invece con dei taxi di diverso colore a seconda della zona in cui si devono spostare e, sopratutto, con tariffe veramente basse. Con 20 $ HKD, ovvero 2 €, è possibile percorrere un paio di chilometri, anche la notte.

Un mezzo che invece a Londra manca è il public light transport, colloquialmente minibus. Si tratta di un ibrido tra il taxi e l’autobus, ovvero dei pullmini con massimo 16 posti che corrono all’impazzata per le vie della metropoli, facendo frenate brusche e cambi di direzione improvvisi per raccattare nuovi passeggeri e lasciar scendere i vecchi.

Questi pullmini sono molto economici e salirci è un’esperienza da non perdere: è sufficiente aspettarli nelle apposite fermate e fare un cenno quando passa quello giusto. Il problema nasce una volta che si è sopra: la maggior parte degli autisti di minibus non conosce l’inglese ed è completamente disinteressata a comunicare con i passeggeri; considerato poi la velocità a cui si spostano, quando qualcuno desidera fermarsi, deve urlare dal proprio sedile, sbraitare e sperare che l’autista non sia sovrappensiero. In tal caso finirà per conoscere una nuova area di Hong Kong.


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L’ultima notte in ostello. Domani firmerò il contratto, farò check out e traslocherò nell’appartamento. Mentre cercavo di addormentarmi, il mio compagno di stanza indonesiano è sceso dal letto a castello, mi si è seduto a fianco e ha iniziato a parlarmi. Voleva dirmi qualcosa, col suo inglese pasticciato. Non stavo dormendo, ma era troppo tardi per affrontare qualsiasi discorso, così ho finto di continuare a dormire. Non credo che abbia creduto alla mia simulazione: sa bene quanto me come sia difficile dormire in questi letti minuscoli e durissimi. Dopo aver continuato a parlare per alcuni minuti ha acceso il suo Ipad e si è messo a controllare qualcosa. Probabilmente si trattava solamente di una strategia per far luce e per vedere se aprivo finalmente gli occhi.

Ho continuato a tenerli chiusi. Pochi istanti dopo era nuovamente nel suo letto ed io mi domandavo di cosa diavolo volesse parlarmi. La mattina dopo, quando ci siamo incontrati, ho fatto finta di niente e lui pure.


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Oggi l’ho sentita, ne sono ormai certo: la donna delle pulizie origlia nelle porte dei clienti. Ero al telefono con un amico, coricato nel mio mini-materasso, quando qualcosa o qualcuno si è appoggiato alla porta, facendola scricchiolare. Dapprima ho continuato a parlare serenamente, poi – dopo un urlo che proveniva dall’ingresso del corridoio ed alcuni successivi rumori confusi proprio sul legno della porta – ho chiuso il telefono e mi sono precipitato ad aprire. Fuori niente, solo la receptionist dell’ostello che sbuffava e diceva qualcosa in cantonese guardando verso la porta del bagno. Volevo rimanere lì ed aspettare che la porta si riaprisse per capire se le mie intuizioni avessero ragion d’essere, ma la receptionist mi ha guardato scocciata e mi ha chiesto: «Do you need anything?». Ho esitato, poi sono tornato dentro la stanza ed ho chiuso la porta.


***


Sono andato a firmare il contratto: l’agenzia, la Wing Kong Holdings Limited, ha sede in cima a Wellington Street, a pochi passi dalla metro di Central e dei grandi palazzi di Gucci e Armani, dove molti hongkonghesi sono soliti scattarsi foto.

Quando sono arrivato Candy non c’era, così la sua collega mi ha fatto attendere seduto su un piccolo sgabello. Nel frattempo lei contrattava con un altro uomo che le chiedeva spiegazioni sulle clausole e le ricordava di essere già stato cliente qualche anno a dietro e che quindi meritava particolare cura. Naturalmente, la presenza di una persona che tornava nella medesima agenzia non poteva che rasserenarmi su ciò che stavo andando a firmare.

Non appena la collega di Candy si è alzata per andare a ritirare delle stampe, ho colto l’occasione per chiedere a quell’uomo dall’accento latino di dove fosse: «I’m from Argentina, and you?». «I-ta-lia-no», ho scandito col sorriso sulle labbra, pensando di aver trovato un cugino. «Ah, bene, allora possiamo parlare italiano. Piacere, mi chiamo Gustavo!». Per un momento sono rimasto disorientato: mi aveva mentito sulla sua provenienza oppure per quale motivo parlava così bene la mia lingua?

«Sono stato in Italia per diversi anni, giocando a tennis», mi ha detto, come se stesse traducendo letteralmente dall’inglese. «Ah, ok... E qui che fai?», ho domandato. «Sono venuto per insegnare tennis, per un anno, forse di più».

D’un tratto un forte rumore ci distrae. Si spalanca la porta ed entra Candy, ridendo ed esultando per qualcosa che non afferro. Dietro di lei un ragazzo cinese che, invece, sembra aver perso qualche sfida. Candy non mi nota e scompare nel back-office. Ancora una volta la vedevo molto diversa da come l’avevo conosciuta. «Hey, there’s the guy who has to sign the contract!», l’ha chiamata in quel momento la collega.

«Oh, sorry, I didn’t see you before!», si scusa Candy col fiatone e mi si siede davanti, mostrandomi il contratto e porgendomi una penna. «You have to sign here, here and here», mi indica col suo minuscolo dito sul foglio azzurrino dove sono presenti i vari articoli del contratto.

«Io non mi fido mica tanto: voglio proprio vederle scritte le clausole», mi agguanta alle spalle Gustavo. «Non sono affidabili?», gli domando sempre in italiano, mentre le due ragazze cinesi si lanciano occhiate interrogative. «Sì, lo sono, altrimenti non sarei qui... Ma non vorrei che fosse cambiato qualcosa. Ormai sono passati due anni!», mi risponde. «Hey, you remember me?! I’m the only argentinian client you have, no doubt!», esclama gesticolando in maniera vistosa.

Pochi minuti dopo abbiamo firmato i contratti. Io due mesi e lui un anno. «Cheers! Cin cin! Salud!», ci diciamo toccando appena i vetri dei nostri bicchieri di birra nel pub di Wellington street.


***


Arrivo al Taiwan Hostel. «I wanna check out!», dico mentre tiro fuori le chiavi dalla tasca.

Dietro il vetro c’è Rose. Ha i lineamenti molto delicati e dei modi gentili. Non conosce il cantonese perché viene dalla Cina e la sua famiglia parla solo il mandarino. Da due anni lavora come receptionist in questo terribile ostello di Hong Kong, con la sola compagnia di un gatto che – anche lui – sembra avere una fisionomia asiatica. Non miagola, ma soffia continuamente. Probabilmente questo è uno dei motivi per cui nessuno si ferma a coccolarlo. Lui sembra essersene fatto una ragione: passa il tempo ad osservare le persone con uno sguardo disgustato. Poi si corica e si addormenta.

«The owner?! No, I don’t know who’s the owner!», ride Rose. Forse qui i gatti non hanno proprietari; forse sono liberi di girare per i tetti dei grattacieli, mangiando ciò che trovano o ciò che gli viene lasciato. Forse.

Rose mi chiede le chiavi e mi restituisce il deposito. Insisto sulla lingua, chiedendole come mai non abbia tentato di apprendere un po’ di cantonese nel periodo che ha vissuto qui a Hong Kong. Lei arriccia il naso e mi dice che non serve, che è poco diffuso. Annuisco. Scambiamo ancora qualche battuta, poi mi consegna una ricevuta per il check-out. La saluto. Sono finalmente fuori da questo inferno.


***


Qualcuno l’aveva accennato nei commenti al precedente articolo: “La settimana prossima sentirà un immondo sgracchio, si girerà, e troverà davanti a se una graziosa cinesina che sputa e rutta come un minatore russo”. Così è stato: era sera e guardavo i grattacieli di Hong Kong Island oltre il mare, quando accanto a me ho sentito uno sgradevole rumore. Mi sono voltato ed eccola lì, una piccola donna cinese che fumava, tirava su col naso, raschiava la gola e via: tutto sparato sul suolo. Non senza poi aspirare nuovamente la sigaretta serena, guardando nella mia stessa direzione: verso quei grattacieli oltre il mare.




[To be continued...]





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