In quale emisfero cerebrale è elaborato il linguaggio?

sabato 7 dicembre 2013

I miei occhi, il tuo sguardo --> HONG KONG (6) - DICIOTTO MESI DOPO


E va bene: riprendo in mano la penna. Un po’ perché mi è stato chiesto; un po’ perché è l’unico modo che ho di uccidere la rabbia e l’inquietudine che mi vive dentro.

Di cose da raccontare ne ho tante. I primi giorni qui sono stati molto difficili.

Non appena ho messo piede sul suolo hongkonghese mi è parso di non essermene mai allontanato: l’aria calda e umida, le voci incomprensibili, le luci abbaglianti, gli odori speziati. Tutto era fin troppo noto. Solamente... c’erano frammenti di vita tra le braccia di compagne meravigliose, il sale e il vento dello splendido mare calasettano, i gusti e le risate di lunghe cene con una famiglia sorprendente. Tutto ciò mi ri chiamava indietro, insieme alla nostalgia per una persona che non riuscivo a dimenticare. E poi la solitudine. Quelle unghie che squarciano impietosamente la tua carne, facendoti vedere il resto diverso, inarrivabile, irraggiungibile.

E allora che fai? Stringi i denti. Cerchi di aggrapparti ad ogni appiglio pur di non cadere. Perché sotto c’è l’abisso e tu lo sai.


***


Come la volta precedente, avevo una camera a Chunking Mansion, a Tsim Sha Tsui. Questa volta, però, avendo un pizzico di disponibilità economiche in più, stavo in una singola, con un letto un po’ più grande e comodo della volta precedente.

Chi ha letto le mie note, lo scorso anno, forse ricorderà che Chunking Mansion non è altro che un lurido ghetto per africani, indiani e pakistani, che funge un po’ da tappeto sotto cui nascondere la polvere hongkonghese. Tutta l’area e controllata attraverso telecamere di sorveglianza, ma non saprei dire chi sta dietro gli schermi ad osservare quel che succede. Non sono pochi gli omicidi, gli stupri e le rapine commesse lì dentro.

Quando ci metti piede – specie se non appartieni a nessuna delle nazionalità sopra elencate –, vieni assalito da un indefinibile numero di persone che ti bloccano la strada e ti propongono di andare a dormire nella loro guesthouse o di acquistare i loro rolex e le loro schede telefoniche. Il neo-arrivato che rallenti il passo per ascoltare le offerte, viene agitato e spintonato: lo scopo è quello di attrarre la sua attenzione ed ogni mezzo è legittimo. Le offerte si fanno aggressive, finché una di loro non vince sulle altre; allora le altre voci si abbassano, lasciano che l’offerta vincitrice ti porti verso la destinazione prediletta (generalmente in qualche piano superiore, raggiungibile attraverso grandi ascensori). Sottovoce le altre offerte proseguono, cercano di persuaderti che quella non sia la migliore, ti toccano braccio e mano nella speranza che tu cambi idea.

Io conosco l’andazzo e non rallento. Cammino dritto e taglio in due quel gruppo di persone che è sempre pronto a intercettarti. “No, thanks!”, dico, senza rallentare e cercando di accennare un sorriso. Quando una mano si aggrappa al mio polso, lo scuoto nervosamente e lancio un’occhiata infastidita al suo proprietario.


***

Una settimana: sette giorni di afa, nuvole e pioggia. Tutti passati a districarmi tra questa gente, sudando magliette e camicie, e cercando nel frattempo di intrattenere rapporti coi miei supervisor, trovare un appartamento, iscrivermi all’università, aprire un conto in banca e seguire le mille procedure burocratiche che sempre ti cadono tra capo e collo quando ti trasferisci in un nuovo Paese. Dormivo poco la notte a causa della temperatura e dell’umidità. Quando potevo bevevo per rilassare corpo e mente.

Così ho fatto anche la vigilia del mio compleanno, la notte del 30 agosto. Un gruppo di vecchi amici mi ha aspettato al solito bar in cui l’anno scorso passavo molti venerdì notte. Abbiamo bevuto, riso e cantato insieme. È stata una bellissima serata, ma avevo nel cuore troppo amaro. Da quel bar, non so come, mi sono ritrovato a giocare con dardi e biliardo: che sia riuscito a vincere un match! Quando siamo usciti dal locale, fuori pioveva a dirotto. Erano le sei del mattino. I miei amici, pian piano, si sono volatilizzati dentro taxi rossi. Io ho preferito camminare: la pioggia non mi ha mai spaventato. E quella notte speravo mi portasse via un po’ d’amaro.

L’indomani, il 31 agosto, mi sarei dovuto trasferire, insieme a tutti i bagagli, in un appartamento che avevo trovato a Wan Chai: settai la sveglia per le 9 del mattino, sapendo che non mi sarei mai svegliato. Poi, d’un tratto, mi sono fermato davanti alla serranda abbassata di un negozio. Ho guardato davanti a me: Hong Kong è tutto quello che avevo sognato nell’ultimo anno, quello per cui avevo lottato senza mai arrendermi. Ora c’ero e per esserci avevo dovuto rinunciare a tante, troppe cose.

Mentre pensavo silenziosamente mi sono scoperto a lacrimare. Ho riso di me. Ma quel riso è stato un detonatore: d’un tratto singhiozzi di dolore hanno iniziato a stringermi la gola; i miei muscoli si sono irrigiditi ed ho sentito una forza dentro che non avevo mai percepito prima. La pioggia continuava a battere davanti a me, creando uno strano alone davanti alle insegne luminose e al riflesso dei fari nell’asfalto. L’amaro stava uscendo.




[To be continued...]

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