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domenica 10 gennaio 2010

Il desiderio e la serenità




Lacan
sosteneva che le fantasie non devono essere mai realistiche, perché nel momento in cui otteniamo ciò che cerchiamo non possiamo più volerlo. Noi non proviamo il piacere dal possesso di qualcosa, ma dal desiderio di possederla.

Siamo esseri orientati allo scopo, ad un risultato.

ESEMPIO 1: Si pensi ad una semplice partita di pallone: non importa se stiamo perdendo, l'importante è che s'intraveda ancora la possibilità di riportarsi in vantaggio. Ma nel momento in cui ciò non sia possibile, oppure nel momento in cui il nostro vantaggio è così superiore da non poter essere recuperato, la partita perde il suo valore, inizia a diventare noiosa.

ESEMPIO 2: Così è pure per il giocattolo che il bambino pretende che i genitori comprino. Nel momento in cui lo otterrà non saprà piu' che farsene e ne cercherà un altro, migliore e magari piu' difficile da ottenere (ovvero piu' costoso!).


Nel momento in cui raggiungiamo il nostro scopo, dobbiamo subito porcene uno maggiore: non farlo significherebbe immobilizzarci, arrendersi alla realtà, morire.

Questo fatto, per quanto interessante e - forse - alla base della superiorità della specie umana sulle altre, ha anche delle conseguenze decisamente negative nonché delle pericolose perversioni.

Tra queste ultime citiamo ciò che spesso accade in amore: è noto che "in amore vince chi fugge". Ebbene, perché può accadere ciò? Semplicemente perché chi fugge riesce a rimanere desiderio, mentre chi insegue equivale ad uno scopo già soddisfatto, ad un obiettivo già raggiunto. Ma come nella partita di pallone dell'Esempio 1, chi fugge deve farsi raggiungere di tanto in tanto, altrimenti diverrà un desiderio troppo distante, troppo difficile da raggiungere e colui che insegue smetterà di correre.
Questa fuga-inseguimento si realizza in maniera esemplare nell'Orlando Innamorato di Boiardo in seguito, però, all'utilizzo - prima da parte di Angelica e poi da parte di Rinaldo - di un filtro d'amore.


Il nostro orientamento alla scopo è la base dell'infelicità della specie umana: mentre le altre specie vivono serene nel loro habitat, l'uomo ha sempre cercato - insoddisfatto - di migliorare la propria condizione, modificando l'ambiente che lo circondava e adattandolo alle proprie esigenze, senza però mai riuscire ad adattarsi egli stesso.

Poiché l'uomo non sarà mai appagato dal raggiungimento di uno scopo e poiché il desiderio comporta movimento e sofferenza, l'uomo non potrà mai godere della serenità.

Questo conflitto interiore viene magistralmente esposto nel Faust di Goethe, laddove il vecchio Professor Faust, che tanto aveva studiato per soddisfare la propria sete di sapere, arriva a sfidare il diavolo e vendergli l'anima, sicuro che nemmeno lui sarà in grado di fargli raggiungere la felicità. "Quando dirò FERMATI ATTIMO, SEI TROPPO BELLO, allorà diverrò tuo schiavo" dice Faust senza mezzi termini a Mefistofele.

Faust sa che il suo piacere sta nel desiderio e non nella soddisfazione dello stesso che il diavolo può offrirgli: lui desidera la mela più matura, ma che marcisca nell'attimo esatto in cui arriverà ad addentarla; desidera la donna che nello stesso istante in cui viene posseduta starà già guardando il suo prossimo amante.

Ma c'è anche chi è riuscito a trovare la serenità. Epicuro, per esempio, sosteneva che tra i desideri possibili solo alcuni sono naturali, e corrispondono a quelli necessari. Tra questi vi è la felicità psico-fisica: una vita che non la contempli non è spesa bene.
Secondo Epicuro era necessario conoscere bene i propri desideri e assecondare solo quelli fondamentali e naturali, cosicché sarebbe diventato possibile creare un'armonia tra corpo e animo.
Nella condizione di serenità ogni turbamento cessa di esistere e lo stato di calma procura beneficio al corpo. La non sofferenza diventa così godimento.


Verrebbe da chiedersi a questo punto:
  1. E' giusto vivere una vita serena, immobile e pacifica, oppure una vita di ricerca, ricca di scontri e sofferenze?
  2. E nello scontro della ricerca siamo destinati a soccombere o evolverci?
  3. Infine, l'uomo sereno è colui che ha perso la sua battaglia col mondo e se n'è quindi distaccato o colui che ha vinto la propria battaglia con sé stesso e i propri turbamenti?





2 commenti:

Enrico Santus Aversano ha detto...

COMMENTO DI FEDERICA LAUTO:

leggendo questo post mi viene in mente Bion, che insegnava agli psicoanalisti ad esercitare senza memoria nè desiderio. solo se l'analista non tiene nella memoria quello che il suo paziente era prima ed elimina il desiderio che lui "guarisca" o diventi in qualche modo, può davvero sentire quello che il paziente sta dicendo ORA, ciò che lui realmente è ORA. come lo psicoanalista di Bion, siamo esseri incastrati fra memoria e desiderio. sia la psicoanalisi che le discipline orientali ci insegnano a guardare a ciò che avviene dentro di noi con uno sguardo nuovo, diverso, e ciò è possibile quando acquisiamo verso noi stessi un
maggiore distacco. c'è una differenza tra buddhismo e psicoanalisi: il buddhismo identifica nel desiderio ciò che ci ancora alla terra condannandoci all'insoddisfazione, la psicoanalisi invita ad ascoltare il demone del desiderio e a farsi trasportare da lui, soffio di vita che ci conduce verso ciò che aneliamo per noi stessi. non a caso il buddhismo conduce alla trascendenza, a riunirsi con l'atman, potremmo
dire ad andare verso l'alto. la crescita che esso promuove è quindi una crescita in verticale. la psicoanalisi invece conduce all'ascolto di noi stessi e poi degli altri per imparare a orientarci e a vivere bene proprio in questa terra, il percorso che promuove è cioè un percorso orizzontale. entrambe le discipline puntano il dito verso la limitatezza dell'uomo e indicano la sua possibilità di andare oltre.
entrambe aprono ad uno sguardo nuovo.
mi viene quindi da dire che perde contro il mondo chi contro il mondo combatte invece di viverci. ma cos'è questo viverci?
sartre e heidegger insegnano che esistenza è diverso da essenza.
noi non siamo soltanto, essere è statico, come il sasso che semplicente è, si trova, nel mondo. noi invece esistiamo ed esistenza è ec-sistere, uscire fuori dall'essere, è un exodus da noi stessi, un uscire da noi, come sottolinea umberto galimberti. secondo sartre l'esistenza precede l'essenza. siamo qualcuno in quanto esistiamo nel mondo e ci muoviamo in esso. quando nasce l'uomo si trova gettato nel mondo. il mondo è ciò che lo pre-occupa, nel senso che
esiste prima che lui venga al mondo. CONTINUA

Enrico Santus Aversano ha detto...

COMMENTO DI FEDERICA LAUTO (PARTE 2):


la percezione dell'essere gettati nel mondo è fonte di angoscia. come dominarla? pro-gettandoci, ovvero elaborando un progetto di mondo, attraverso il quale inserirci in esso.
il mondo di oggi ci costringe, ci induce a fare, fare, fare, fare. ed è vero che è con l'azione che l'uomo si crea uno spazio e si dischiude un mondo ma questo fare oggi è forse talmente denso, talmente frenetico da impedirci di pensare.
forse allora la questione non è dover decidere se stare fermi e sereni o muoversi e andare in-contro al mondo e alla sofferenza, l'uomo in fondo se non si muove (nel mondo) significa che è morto, ha perso il contatto con il mondo stesso e la sua vitalità. forse anche lo scontro è pur sempre un in-contro, poichè è andare verso qualcosa del mondo.
essere, dice heidegger, è essere nel mondo. essere con gli altri nel mondo-della-vita e con un proprio progetto di mondo. forse la vita a volte è troppo forte, e semplicemente non possiamo
controllare tutto, forse la vita non è altro che in-contri (e scontri) e in questi in-contri io scopro nuovi lati di me stesso e nuove cose del mondo.
allora scopro che l'Altro è in me.
e io, per quanto sia difficile pensare questo, non è qualcosa di fisso, ma in continuo mutamento. per questo le discipline orientali invitano a superare l'io, affermando che esso nient'altro è se non una costruzione e la psicoanalisi e la psicologia in genere diffidano di ciò che l'uomo si tiene stretto stretto sotto l'ascella affermando essere "ciò che
luirealmente è". l'identità, in fondo, ci insegna pirandello, è una maschera e noi siamo uni, nessuni, e centomila.
in questa ottica, allora, che importanza ha vincere o perdere?
quando io perdo qualcosa di me, qualcosa del conosciuto, trovo Altro e questo Altro lo scopro in me. e allora aveva ragione pessoa, a sentirsi una sola moltitudine. tutto
il mondo è in noi, e noi ci moltiplichiamo in esso. l'identità, l'avere e l'essere sono sempre al di là. e noi ci possiamo
trovare solo se usciamo al di fuori di noi stessi.
noi possiamo raggiungerci attraverso l'azione, e il pensiero.
perchè la nostra azione non sia distruttiva o cieca occorre che si accompagni al pensiero.
credo sia questo che manchi in gran parte nel nostro mondo di oggi, che corre e corre e cerca di moltiplicare accumuli di avere perdendo di vista se stesso, e le esistenze.
dedicare un piccolo pensiero alla vita. viva, che siano vive!, la letteratura, la poesia, e le arti, che inventando e creando dicono la verità, e che immaginando dis-velano i
lati nascosti del mondo.

FEDERICA LAUTO

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